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Dalla TERRA DEL FUOCO al VENEZUELA

Il ghiacciao Perito Moreno, Argentina Ora che abbiamo raggiunto la Terra del Fuoco avvertiamo un calo di motivazione e siamo quasi restii a riprendere la strada verso nord. Siamo comodamente accampati sul mare a due passi dal centro di Ushuaia dove, fino ai primi anni cinquanta, sorgeva il più temuto penitenziario dell'Argentina. Oggi il carcere è diventato un museo e sul porto sono ormeggiate lussuose navi da crociera e una nave rompighiaccio russa che porta i turisti in Antartide.

Una mattina, appena svegli, ci sorprende una strana calma: il vento è cessato e il silenzio è rotto solo dal rumore cadenzato dei motori dei pescherecci nella baia. Apriamo la finestra: sta nevicando, la città e le montagne circostanti sono tutte bianche. E' il segnale che ormai è tempo di rompere gli indugi e ricordiamo che anche in Alaska fu la prima nevicata a farci riprendere il camino.

Ripassando lo stretto di Magellano siamo a Rio Gallegos da dove si devia per El Calafate e il Parco dei Ghiacciai. Ancora un centinaio d chilometri e siamo al Perito Moreno superata l'ultima collina, ci appare un fiume di ghiaccio di uno sfolgorante bagliore. Questo ghiacciaio è uno dei pochi al mondo che continua ad avanzare e dal suo fronte si staccano blocchi grandi come palazzi, che precipitano con fragore nel sottostante lago Argentino. Ci accampiamo in uno spiazzo di fronte al ghiacciaio e trascorriamo una notte indimenticabile e insonne; sopra di noi la massa glaciale scricchiola e geme e sul lago galleggiano gli iceberg che brillano sotto la luna.

Proseguiamo verso nord sulla strada asfaltata che corre lungo l'Atlantico. Il vento, che qui chiamano pampero, soffia incessante e anche viaggiando a tutto gas e in rettilineo non riusciamo a superare i 50 chilometri l'ora.

Leoni marini nella penisola di Valdes, Argentina Arriviamo alla Penisola Valdes, un santuario naturale dove trovano rifugio fitte colonie di pinguini e migliaia di leoni marini. I loro piccoli, in questa stagione, stanno imparando a nuotare e ne approfittano le orche, entrando nelle insenature con l'alta marea e sorprendendo i cuccioli fin sulla spiaggia.

I guardaparco annotano su una lavagnetta il numero degli assalti e sanno riconoscere le singole orche dalla forma e dall'inclinazione della grande pinna dorsale; ci dicono che una femmina su cinque perde il suo piccolo. Gli elefanti marini preferiscono invece la zona di Caleta Valdez. La loro aria sonnacchiosa non deve trarre in inganno: se un maschio estraneo si avvicina al gruppo delle femmine, iniziano duelli furiosi e l'intruso viene respinto spesso con profonde ferite.

E' eccezionale osservare dal vivo scene che normalmente si possono vedere nei documentati naturalistici.

Traversiamo il Rio Negro ed è l'addio alla Patagonia, che ci ha affascinato per la sua natura selvaggia e primitiva. La steppa lentamente lascia il posto a pascoli sempre più verdi e le greggi a mandrie di bovini: è l'inizio della pampa.

Passata Bahia Blanca i centri abitati diventano più frequenti e mentre ci avviciniamo alla capitale il traffico si fa più intenso.

Gli squillanti colori delle case di Boca, Buenos Aires, Argentina Buenos Aires dà subito l'impressione di essere una città vera, non l'informe aggregato urbano che spesso capita di vedere in America Latina. Grandiose le vie del centro, con edifici costruiti nei primi quaranta anni del 1900, quando l'Argentina era uno dei paesi più prosperi del mondo. La crisi economica e la pesantissima disoccupazione hanno gonfiato artificiosamente il costo della vita dovuto anche all'assurdo tasso di cambio di uno a uno con il dollaro americano; a ciò si aggiunge un profondo disagio sociale che ha le sue radici nel periodo della dittatura militare.

Capitiamo nella Plaza de Mayo un giovedì alle tre di pomeriggio: ogni settimana da diciotto anni qui si incontrano le madri dei desaparecidos. Il gruppo è vario e numeroso, da eleganti signore a popolane vestite poveramente, ma tutte portano annodati sotto il collo i fazzolettoni bianchi, che sono diventati il simbolo del loro movimento, e appuntata al petto la fotografia del congiunto scomparso. Il gruppo gira lentamente intorno all'obelisco al cento della piazza per ricordare, con la sua marcia silenziosa, la vergogna della mancata punizione dei colpevoli dell'assassinio di oltre 30.000 persone. Una pattuglia di poliziotti controlla che nessuno si avvicini alla casa Rosada, la sede del governo. Ci mettiamo a parlare con una signora di origine italiana che ha perduto la figlia di 19 anni, il genero e il nipotino di pochi mesi che probabilmente è stato dato in adozione a qualche famiglia sconosciuta; ci dice di non essere mai mancata in tutti questi anni a una sola marcia, anche ai tempi della repressione più dura, ma si lamenta che il movimento si sia burocratizzato e del fatto che da parte di organizzazioni estere arrivino troppi soldi, attirando soggetti che con gli scopi del movimento hanno poco a che fare, togliendo prestigio e credibilità all'associazione.

Moai, Isola di Pasqua Realizzando un vecchio sogno di gioventù, decidiamo di fare un'escursione di una settimana all'Isola di Pasqua.

Secondo la tradizione un gruppo di polinesiani partiti con le loro piroghe dalle Isole Marchesi si stabilì sull'Isola di Pasqua edificando i luoghi di culto dei Moai. Per secoli gli abitanti di Rapa Nui, la grande roccia, edificarono le loro gigantesche statue di tufo vulcanico e le posero lungo la costa a protezione della comunità. Ad eccezione della minuscola capitale di Honga Roa non ci sono altri insediamenti, poco oltre le ultime case, si stendono le verdi praterie dove si rincorrono mandrie di cavalli selvaggi. L'isola è brulla e austera, solo qualche ciuffo di palme e una spiaggia di sabbia bianca.

Facciamo una gita fino alla cima del vulcano Rano Raraku, lungo il sentiero di lava nera giacciono i Moai ancora incompiuti. Nel mare turchino si staglia un alto scoglio roccioso dove si svolgeva il rito dell'uomo uccello e qui vennero girate le scene più spettacolari del film Rapa Nui, storia di un popolo che, a causa delle continue guerre tra clan, praticamente si autodistrusse.

Moai, Isola di Pasqua Tornati a Buenos Aires riprendiamo il nostro viaggio costeggiando il Rio della Plata per superare il confine con l'Uruguay.

Questo paese, come l'Argentina, ha goduto di un periodo di prosperità fra le due guerre mondiali, poi è iniziata una progressiva decadenza culminata, anche qui, con una brutale dittatura militare. Siamo accampati nel parcheggio del Club des Pescadores, proprio di fronte al mare, il tempo è freddo e nuvoloso nonostante la primavera inoltrata. Facciamo un lungo giro attraverso la zona rurale del paese che non offre particolari attrazioni, ma ci piace il tranquillo stile di vita dei piccoli centri. Circolano ancora vecchie automobili degli anni '50 e i negozi ricordano, per la scarsità e il disordine delle merci esposte, quelli italiani del primo dopoguerra; la gente che incontriamo è ovunque semplice e cortese.

Rientriamo in Argentina e attraversiamo la fertile regione di Santa Fè, poi andando verso nord il paesaggio diventa arido e stepposo: ormai siamo nel Chaco, la zona più depressa del paese. I villaggi si diradano e appaiono sempre più miseri, molte case sono costruite con graticcio e fango. Dove affiora un po' d'acqua e c'è una macchia di verde, sorge un piccolo rancho con qualche mucca, per il resto solo savana di arbusti spinosi. Secondo la guida Salta dovrebbe essere una delle città più caratteristiche dell'Argentina: in realtà, a parte qualche costruzione coloniale, c'è ben poco da vedere e non è molto diversa da altre anonime località che abbiamo già incontrato.

Il nostro programma è quello di lasciare il camper un paio di settimane al camping municipale di Salta e visitare la Bolivia con i mezzi pubblici: alcuni viaggiatori ci hanno infatti sconsigliato di impiegare il nostro veicolo sulle disastrate strade boliviane.

Un gaucho del Chaco Iniziamo l'itinerario da Santa Cruz de la Sierra, che ci sorprende per il movimento e la vivacità. Insieme a Cochabamba, è considerata il centro della raffinazione ed esportazione della cocaina boliviana: i miliardi del narcotraffico trovano proficuo impiego in attività lecite e in tutta la regione sono sorte nuove fabbriche, modernissime fattorie e centri commerciali.

Arriviamo a La Paz, arroccata a 4000 metri di quota al centro di un immenso anfiteatro naturale.

A questa altitudine l'aria è rarefatta e per di più appestata dagli scarichi dei bus urbani, che arrancano scarburati nelle ripide strade: il segreto per non perdere il fiato in pochi minuti è quello di camminare a piccoli passi cadenzati e di fermarsi ogni volta che si vuol parlare.

Il centro storico non è particolarmente attraente, alcuni chilometri più a valle ci sono i quartieri moderni con negozi eleganti, ambasciate e le abitazioni della classe benestante, La Paz ha infatti la curiosa caratteristica di avere i "quartieri alti" in basso, dove l'aria né più respirabile e il freddo meno crudo, mentre la povera gente vive in case abbarbicate sul fianco della montagna.

L'altopiano è arido, i piccoli spazi di terra vengono coltivati a mais e nei campi gli indios usano ancora aratri a chiodo, mentre ad altitudini maggiori pascolano greggi di lama e alpaca.

Fra Oruro e Potosì il viaggio dura un'intera giornata e attraversa una regione poverissima.

L'altopiano Boliviano Il bus a intervalli regolari si ferma in piccoli paesi, tra casupole di pietra nuda con i tetti di erba secca pressata: bambini cenciosi giocano a piedi nudi per la strada nonostante la temperatura rigida, gli uomini, piccoli e nerboruti, siedono davanti alle porte masticando con aria apatica il solito bolo di foglie di coca. Poche volte abbiamo visto tanta miseria e abbandono.

Nelle soste, donne indigene salgono sul bus con pentoloni pieni di minestra e strani animaletti che sembrano, o sono, ratti steccati e arrostiti: anche gli altri passeggeri guardano perplessi quegli "spiedini" che, nonostante le insistenze delle donne, nessuno compra.

Potosì, a 4090 metri, fu la più ricca e popolosa città dell'impero spagnolo. E' dominata dalla piramide quasi perfetta del Cerro Rico, dal quale sono state estratte tonnellate di argento. Qui gli indios furono costretti a turni micidiali di lavoro dai quali non sopravvivevano a lungo: si calcola che, nei tre secoli di sfruttamento intensivo, il Cerro Rico abbia ucciso otto milioni di schiavi fra indios e negri africani.

Oggi le grandi compagnie hanno abbandonato l'estrazione dell'argento perché ritenuta troppo onerosa, ma nelle viscere della montagna si continua a scavare e a morire: di silicosi, di tubercolosi, per il crollo delle gallerie. I minatori si sono riuniti in piccole cooperative e dalla vendita del minerale ricavano appena il necessario per sfamare la famiglia. Si lavora ancora con sistemi arcaici, pala, piccone, carriola, e si ripetono i ritmi di lavoro imposti dai conquistadores: e se oggi gli indios non hanno più un padrone, la legge del mercato che fissa il prezzo del minerale è egualmente spietata. Potosì

Torniamo quindi a Salta, in Argentina, dall'altopiano boliviano e ci concediamo un paio di giorni di riposo al camping municipale.

Riprendiamo quindi il nostro viaggio attraverso il Chaco e dopo 800 chilometri arriviamo a Resistencia, una città fondata da emigranti trentini e friulani. Siamo in prossimità del confine con il Paraguay, che forse è il paese meno conosciuto e visitato dal Sud America.

Passiamo la frontiera a Clorinda e ci colpisce il fatto che il poliziotti e i doganieri parlino fra loro in guaranì, la lingua originale indigena, che in Paraguay è lingua ufficiale al pari dello spagnolo.

Poco prima di Asuncion, la capitale, siamo fermati a un posto di blocco e ci viene contestato di non avere a bordo due triangoli per la segnalazione di veicolo fermo. Sulle prime pensiamo che si tratti di un pretesto per farci una multa e ci prepariamo alla consueta discussione nella quale siamo diventati esperti. Da quando abbiamo lasciato gli Stati Uniti siamo stati fermati decine di volte e spesso è capitato che la polizia o i militari tentassero di farci una contravvenzione adducendo i motivi più assurdi, in Messico, per esempio, pretendevano che la - I - della targa internazionale fosse esposta anche sul davanti del veicolo. Con calma e senza offendere il machismo degli agenti, iniziavamo un pacato discorso cercando di dimostrare l'infondatezza dell'infrazione contestata e se poi la discussione prendeva una brutta piega ricorrevamo, con il nostro spagnolo approssimativo, a una frase dall'effetto fulminante - "esta no es una multa, es una estorcion"; a questo punto ci facevano proseguire con un rassegnato - "vaya con Dios" - In tre anni di viaggio siamo riusciti a non pagare una sola multa. Con la contestazione della mancanza dei due triangoli le cose sembrano però mettersi male, un poliziotto infatti ci legge l'articolo del codice stradale che dice chiaramente che è obbligatorio il doppio triangolo da porsi davanti e dietro al veicolo in sosta. Siamo ormai rassegnati a pagare, quando a sorpresa il capopattuglia, invece di estrarre il blocco delle contravvenzioni, ci invita a comprare il secondo triangolo al prossimo paese; a tanta indulgenza nei confronti di un gringo non eravamo proprio preparati!

Ad Asuncion per fortuna esiste un camping, di cui siamo gli unici ospiti, che è ubicato in uno spiazzo adiacente al giardino zoologico e i ruggiti e i barriti degli animali fanno da sottofondo al nostro soggiorno. Asuncion non ha certo le caratteristiche di una capitale e la modestia delle sue costruzioni rispecchia la povertà di storia del paese. La cattedrale, dove all'interno svolazzano indisturbati i piccioni, somiglia a una modesta chiesa parrocchiale e di fianco al palazzo presidenziale sorge una baraccopoli che accoglie gli evacuati di una recente alluvione. L'edificio più imponente della città è il Pantheon degli Eroi dove montano la guardia dei soldati-bambini. Gli eroi sono i 60.000 caduti di una guerra sciagurata incoraggiata dalle compagnie petrolifere nordamericane, combattuta contro la Bolivia fra il 1929 e il 1935, per l'annessione di una fetta del Chaco, che si pensava ricca di petrolio ma dove poi non ne fu trovato neppure un barile.

Nueva Italia in Paraguay La parte meridionale del Paraguay è stata colonizzata dagli italiani e quando sulla strada nazionale vediamo un cartello che indica "Nueva Italia 34 Km", spinti dalla curiosità deviamo per una stradetta piena di buche che ci porta a un modesto villaggio; andiamo all'ufficio postale e chiediamo se in paese vivono ancora famiglie italiane: nessuna, le ultime se ne sono andate da almeno due generazioni.

Siamo nella regione delle missioni gesuite, le cui rovine sono l'unica cosa interessante da visitare in Paraguay.

Nuova deviazione e arriviamo a San Cosma e Damiano. Quella delle reduciones è uno dei capitoli meno noti della conquista spagnola in America. I gesuiti costruirono all'inizio del 1600 le prime missioni nei territori degli indiani Guaranì, che presto divennero un punto di aggregazione per la popolazione indigena che qui trovò rifugio e protezione dalle incursione dei bandeirantes, i cacciatori di schiavi portoghesi. Sotto la guida dei padri gesuiti le reduciones prosperarono e formarono delle piccole città-stato, governate dagli stessi indigeni con un'organizzazione sociale improntata ad una sorta di socialismo evangelico che si confaceva alla loro cultura che non concepiva la proprietà privata. Per la prima volta nella storia della colonizzazione agli indigeni era riconosciuta la dignità di essere umano. Le autorità coloniali e l'alto clero si erano ovviamente sempre opposte a questo modello di emancipazione e dopo pressioni di ogni tipo alla fine le missioni, nel periodo del loro maggiore sviluppo, furono attaccate con le armi dagli spagnoli e dai bandeirantes. Dodicimila indigeni, guidati dai loro preti, cercarono allora rifugio a bordo delle loro canoe a valle del Rio Paranà, ma si trovarono la strada sbarrata dalla grande cascata del Rio Guaira.

Missioni in Paraguay Superata la cascata proseguirono il viaggio fino alla regione oggi compresa fra Argentina, Paraguay e Brasile, e qui edificarono le nuove missioni dove poterono vivere un periodo in pace. Dell'epopea degli indiani Guaranì e dei padri gesuiti, il film "Mission" ce ne offre un'immagine fedele e toccante. Nel 1767 la Spagna espellerà i gesuiti da tutti i possedimenti del regno e le missioni, prive dei loro protettori, furono nuovamente aggredite e distrutte, le culture devastate e gli indios ridotti in schiavitù.

A Encarnacion rientriamo in Argentina per visitare San Ignacio, dove ci sono i resti di una delle missioni più importanti. Dopo la distruzione, le rovine furono invase dalla foresta e rimasero sepolte e dimenticate per oltre due secoli. Recentemente il complesso è stato riportato alla luce e restaurato. Siamo accampati ai margini delle rovine sotto l'ombrello degli jacarandas in fiore; seguendo facili sentieri tagliati nella foresta visitiamo il vasto parco archeologico. E' impressionante vedere ancora oggi le travi dei tetti annerite dagli incendi, i buchi delle pallottole nei muri e pensare come venne brutalmente annientata una comunità di gente mite e laboriosa.

Traversiamo la provincia di Misiones e man mano che ci avviciniamo alle cascate di Iguazù siamo sempre più elettrizzati dall'impazienza di arrivarci.

Le cascate sono all'interno di un parco nazionale e la foresta si alza rigogliosa ai due lati della strada; abbiamo la fortuna di trovare uno spiazzo dove accamparci a poche centinaia di metri dalla cascata principale. Il Rio Iguazù forma nel suo salto di settanta metri non una ma ben 275 singole cascate su un fronte di due chilometri e mezzo. L'impressione è grandiosa anche per il paesaggio tropicale circostante. Con una barca si arriva sotto la 'garganta del diablo' dove la massa d'acqua precipita con il frastuono del tuono in uno stretto semicerchio roccioso sollevando una grande nuvola di vapore. Passiamo tre giorni nel parco in un ambiente da paradiso terrestre. Durante il giorno, a poche centinaia di metri dai parcheggi, dove arrivano senza sosta i torpedoni di turisti vocianti, si apre la foresta intatta e silenziosa. La notte è invece piena dei versi degli uccelli, di strilli acuti, delle grida delle scimmie urlatrici, del gracidare di innumerevoli rane con in sottofondo il boato della cascata. Le cascate di Iguazù

Traversiamo a Iguazù per l'ultima volta una frontiera Argentina, da questo paese siamo entrati e usciti ben sei volte. Finalmente siamo in Brasile, una meta che ci sembrava irraggiungibile. Già a Foz, la prima città brasiliana, si respira tutta un'altra atmosfera; gente sorridente e cordiale, più colore, più allegria. E' il Brasile che ci eravamo sempre immaginato. Scendiamo verso la costa traversando un verde paesaggio collinare. Questa regione è stata colonizzata nel secolo scorso da immigranti tedeschi e italiani, soprattutto veneti, che, ancora oggi mantengono le loro tradizioni. Anche i nomi delle località indicano la provenienza dei primi coloni; traversiamo Nova Trento e poco oltre siamo a Blumenau, che somiglia molto a una cittadina bavarese con le tipiche case a graticcio, le insegne di ferro battuto e il padiglione per l'Oktoberfest. Fa freddo e negli ultimi giorni ha piovuto molto, decidiamo di goderci qualche settimana di riposo e di sole sulle spiagge dell'isola di Santa Catarina.

Appena fuori di Florianopolis, il capoluogo dell'isola, un grosso fuoristrada ci sorpassa e ci fa segno di fermarci. Ci viene incontro un ragazzone barbuto e sorridente - "che ci fanno dei fiorentini a Santa Catarina?" - ci chiede imitando la parlata toscana. - "Cerchiamo la spiaggia più bella e tranquilla dell'isola" - rispondiamo - "Allora è al Pantano do Sul davanti a casa mia, seguitemi"- Così nasce l'amicizia con Paulo Rollo e la sua deliziosa amica Elisangela. Paulo è di lontana ascendenza italiana, ha vissuto un periodo a Firenze ed è un giornalista specializzato in test di auto per conto delle case costruttrici. Per il suo lavoro ha girato il mondo in automobile e su questa esperienza ha scritto un libro di grande successo, è un vero vulcano di simpatica e ottimismo. Siamo parcheggiati davanti la sua casa a due passi da una spiaggia da sogno. I giorni passano veloci, la sera arrivano amici e viene preparato il churrasco, la tipica grigliata brasiliana; si parla, si discute, si raccontano episodi di viaggio e ci sentiamo distesi e rilassati. Gli incontri con persone amiche e ospitali costituiscono degli intermezzi piacevoli che ci danno grande gioia e ci fanno sentire nuovamente il calore di una casa; la vita nomade infatti spesso ci preclude la possibilità di instaurare un rapporto più personale con la gente che conosciamo.

La sosta ci ha ricaricati; proseguiamo pieni di entusiasmo verso nord lungo la costa frastagliata fino a una delle città coloniali più caratteristiche del Brasile: Parati. Qui le auto sono vietate e le strade strette e lastricate di grosse pietre furono progettate per essere invase e lavate dalle acque tranquille della baia. Quando l'acqua alta si ritira, come in una Venezia tropicale, le strade restano pulite e bianche di sale. Ricca e potente, Parati era il porto di imbarco dell'oro estratto oltre le montagne nel Minas Gerais.

Entriamo nello stato di San Paolo dove vive la maggior parte della popolazione di origine italiana che arrivò in Brasile alla fine dell'800 per sostituire gli schiavi negri nelle piantagioni di caffè e a loro volta si trovarono schiavi, se pur senza catene, nella fazendas, in cui vigevano regole inumane simili a quelle delle estancias di pecore cilene o argentine; il lavoratore, una volta ingaggiato, si trovava perennemente indebitato con il padrone senza la possibilità di potersene andare. La storia dell'immigrazione italiana alla fine del secolo scorso è raccontata da "Terra Nostra", una telenovela che inchioda dal lunedì al sabato cinquanta milioni di brasiliani davanti al video. Alle otto di sera le strade si vuotano come per una partita di calcio e tutti sono davanti al video a seguire le storie intrecciate degli emigranti Matteo, Giuliana, Don Francesco e di innumerevoli altri che parlano un linguaggio infarcito di espressioni italiane. La gente ci chiede cosa significa in portoghese "Caspita", "per Diana", "Ecco", tutte parole sentite nella puntata della sera prima, ovviamente non siamo in grado di rispondere.

Siamo ospiti a Iperò, a 100 chilometri da San Paolo, della famiglia Del Vigna e per loro "Terra Nostra" è un culto, come la ricerca di un'identità perduta: la signora Jolanda ci racconta che suo nonno arrivò in Brasile agli inizi del '900 da Pescia in provincia di Pistoia; riuscì a fuggire da una piantagione di caffè nascosto sotto un carro di paglia e una volta riacquistata la libertà, lavorando duro per tutta la vita, fece una fortuna con una fabbrica di laterizi. Anni fa è ritornata a Pescia per cercare le radici della sua famiglia e con l'aiuto di tutto il paese è riuscita a rintracciare dei parenti con i quali ha riallacciato i contatti: una storia che farebbe la gioia di Raffaella Carrà.

Risaliamo la costa atlantica fissando le tappe da un posto di mare all'altro. A Rio de Janeiro si presenta il consueto problema di tutte le grandi città: dove trovare un posto tranquillo e soprattutto sicuro dove pernottare; è particolarmente difficile perché la città degrada ripida verso le spiaggie e i quartieri residenziali sono in mezzo alle favelas che sono abbarbicate nei canaloni dove è impossibile costruire e che spesso sono a poche centinaia di metri in linea d'aria dagli alberghi e dai condomini più lussuosi, quasi nascoste fra un grattacielo e l'altro. Dopo aver cercato a lungo, alla fine dobbiamo uscire di quasi quaranta chilometri dal centro per trovare un campeggio sul mare e ogni giorno ci facciamo due ore di bus per arrivare in città; in uno di questi viaggi quotidiani nella calca cercano, senza successo, di sfilarci il portafoglio.

A nord di Rio le spiaggie e le piacevoli località di mare si susseguono fino a Porto Seguro dove fervono i preparativi per il "Cinquecentenario" della scoperta del Brasile, perché proprio qui toccarono terra nel 1500 le navi portoghesi salpate da Lisbona.

Proseguendo verso nord lungo il percorso ci fermiamo a un accampamento del MST, il movimento dei lavoratori senza terra che si batte in favore della riforma agraria e che occupa i terreni agricoli inutilizzati. Ci fa da guida Marcio Ricardo, il responsabile della piccola comunità, e ci conduce attraverso capanne di bambù ricoperte da teli di plastica. Nel campo vivono decine di famiglie in condizioni di estrema indigenza. Marcio ci dice che in Brasile la metà della terra coltivabile è posseduta da pochi latifondisti, una delle peggiori proporzioni al mondo. Gli uomini dell'accampamento si preparano a invadere nei prossimi giorni un latifondo sapendo che dovranno affrontare le squadre della polizia militare. I morti del movimento si contano già a centinaia. Questa è la realtà del Brasile dove esiste, accanto a una grande ricchezza, tanta povertà e un'intollerabile ingiustizia sociale.

Donna alla finestra a Salvador, Brasile Vogliamo essere a Salvador Bahia per la prima settimana di marzo in occasione del carnevale che richiama oltre tre milioni di visitatori da ogni angolo del paese. Salvador è forse la città del Brasile che più ha conservato la sua anima africana e il carnevale è una vera esplosione di gioia popolare; non è scenografico come quello di Rio con i carri allegorici sfavillanti di colori e le splendide mulatte; qui folle enormi, con le magliette dei colori del gruppo, seguono i trios eletricos che sono autotreni di dimensioni gigantesche con sopra le bande che suonano ritmi spumeggianti e altoparlanti dalla potenza inaudita. La baldoria dura tre giorni e quattro notti poi lentamente la città riprende la sua vita normale: si smontano i palchi e le transenne, si tolgono le coperture di tavole dalle vetrine dei negozi, si raccolgono tonnellate di rifiuti e di lattine di birra. Anche il camping, che era gremitissimo, si vuota nello spazio di una mezza mattinata e restiamo solo noi e qualche tenda sparsa. Salvador Bahia non è solo carnevale, è anche una splendida città d'arte con chiese dalle sontuose decorazioni e un quartiere coloniale, il Pelourinho, che è stato magistralmente restaurato.

Lasciamo la costa e pieghiamo verso ovest, il far-west brasiliano non meno sterminato di quello nordamericano. I giorni di guida sono monotoni e il paesaggio che ci circonda sempre uguale: grandi estensioni coltivate a soia e pascoli con migliaia di mucche. La strada è a continui saliscendi e la qualità dell'asfalto va dall'ottimo al catastrofico, con tratti di centinaia di chilometri pieni di buche; l'attenzione alla guida deve essere costante perché anche su un tratto perfettamente asfaltato può capitare di trovarsi davanti all'improvviso un cratere non segnalato. Dopo cinque giorni siamo a Brasilia, la capitale. La città fu creata nel 1957 in soli tre anni secondo criteri futuristici.

Ogni settore è separato dall'altro da larghi viali e fra blocco e blocco le distanze sono enormi: la città è stata concepita solo per l'automobile. Alcune costruzioni sono dei capolavori di architettura moderna, come la piazza dei Tre Poteri e la cattedrale a forma di corona di spine.

Secondo il nostro programma originale il viaggio si dovrebbe concludere a Brasilia con il ritorno a Rio de Janeiro per prendere la nave per l'Italia.

In Argentina però avevamo incontrato un camperista tedesco con un Unimog che arrivava dal Venezuela attraverso l'Amazzonia; da Manaus con una chiatta era poi arrivato a Porto Velho; il fiume è infatti l'unica via di comunicazione da quando la Transamazzonica non è più praticabile ed è stata invasa dalla foresta. Lungo il suo percorso negli anni 70 il governo aveva dato ai coloni un appezzamento di terreno da coltivare senza però fornire le strutture essenziali e questi insediamenti, che garantivano la manutenzione dell'arteria, sono stati in gran parte abbandonati. Eravamo anche venuti a sapere che la strada fra il confine venezuelano e Manaus era stata recentemente asfaltata ed era percorribile senza problemi anche da un mezzo come il nostro che non è certo un camion di Overland. Cambio di programma, quindi, e dopo Brasilia decidiamo di proseguire verso Ovest fino a Porto Velho e qui discendere il Rio Madeira su un pontone fino alla confluenza con il Rio delle Amazzoni. Ci dicono che le condizioni della strada fra Cuiaba e Porto Velho sono pessime, ma la nostra vera preoccupazione sono le condizioni metereologiche: siamo teoricamente alla fine della stagione delle piogge ma ogni giorno temporali violentissimi ci obbligano a una marcia lenta e faticosa.

Ci fermiamo per il fine settimana a Caldas Novas, una simpatica cittadina termale e al camping incontriamo Oswaldo e Anita Dantas, una coppia dello Stato di San Paolo che viaggia con un fuoristrada e la roulotte. Oswaldo è un pensionato che ha fatto il camionista e conosce le strade del paese come le sue tasche; quando sente che vogliamo arrivare a Porto Velho in questa stagione, si mostra piuttosto pessimista. La sera, quando siamo a cena e fuori sta piovendo a dirotto, sentiamo bussare al camper: è Oswaldo che trafelato viene a dirci che la Tv ha appena trasmesso un servizio sull'inondazione della regione a nord di Cuiaba: colonne di camion sono bloccati nel fango della savana allagata da giorni, i ponti inagibili, interi villaggi distrutti; i rifornimenti di acqua e viveri vengono assicurati solo dagli elicotteri. E' quello che temevamo dopo le piogge torrenziali degli ultimi giorni. Il morale scende a zero; proseguire non ha senso perché andremmo a impatanarci con certezza in un vicolo cieco; l'unica possibilità per raggiungere Manaus è quella di invertire la marcia e ritornare verso la costa fino a Belem alla foce del Rio delle Amazzoni e qui cercare di imbarcarsi: una tirata di qualcosa come 3.000 chilometri.

Non ci dormiamo un'intera notte, siamo dibattuti fra la soluzione di fermarci e quella di continuare sapendo che rimettiamo a rischio un viaggio praticamente concluso. Alla fine decidiamo di tentare, se non altro la strada per Belem offre più di una deviazione verso Rio da dove possiamo sempre prendere una nave per l'Italia.

Sotto un cielo nero come la pece con lampi che squarciano l'orizzonte ci mettiamo in marcia. Abbiamo diviso il percorso in piccole tappe in modo da non stressarci troppo, regolarmente a metà pomeriggio marchiamo il cartellino e ci fermiamo per la notte. Il panorama è identico per tutti e i 3000 chilometri: savana, qualche pascolo, miseri villaggi di poche case con bambini, troppi bambini, che scorrazzano per le vie polverose. Incredibile il numero delle chiese che vediamo in questi paesetti: cattolica, evangelica, battista, pentecostale, del settimo giorno, mormoni e tante altre dai nomi fantasiosi, quasi più chiese che case.

La strada è asfaltata ma a tratti è così piena di buche da far rimpiangere lo sterrato. Facciamo qualche giorno di sosta per mettere ordine "in casa". Io sono occupato per ore in piccoli lavori di manutenzione, cambio olio e filtri, purtroppo c'è una perdita dal paraolio della pompa ma ormai non resta che fare i rabbocchi e rimandare la riparazione al nostro rientro a casa. Lisa ripulisce l'interno del camper da chili di polvere e quando è possibile laviamo anche la biancheria. La sera scriviamo il diario, ascoltiamo il notiziario dall'Italia e giorno dopo giorno seguiamo sulla carta con il pennarello rosso l'itinerario in direzione della nostra destinazione, la linea rossa lentamente si allunga ma Belem è sempre lontana. La traversata dell'altopiano ci da l'esatta percezione della vastità del Brasile, quasi un intero continente.

Dopo quindici giorni arriviamo a Belem, un angolo di Africa trapiantato in Brasile. L'atmosfera del porto di Belem, soffocato da una calura opprimente, non è per nulla rassicurante. Straccioni, prostitute, venditori ambulanti ciondolano lungo i marciapiedi e ovunque c'è un lezzo di fogna e di pesce marcio. Sulle banchine sono attraccate le gaiolas i tipici vaporetti del Rio delle Amazzoni a tre o quattro ponti sovrapposti e le grandi chiatte per il trasporto dei camion, qui si trovano anche gli uffici delle compagnie di navigazione. Tutte sono disponibili a caricare il camper ma non a prendere passeggeri a bordo.

Inizia la navigazione sul Rio delle Amazzoni Alla fine, tramite un galoppino, arriviamo alla Oliveira Navigacao. In ufficio troviamo gente scortese ma almeno disposta a prendere su anche noi. Pattuiamo il nolo, la percentuale per il mediatore e ci dicono di trovarci alle cinque del pomeriggio sul molo per l'imbarco; pagamento anticipato, nessun documento di imbarco, niente biglietti o ricevute. Appena accenniamo un'obiezione, l'impiegata ci dice in malo modo di andarci a cercare un'altra compagnia. Non ci resta che rispondere con un obrigado, grazie, e andarcene. Non ci sentiamo comunque per niente tranquilli e per sicurezza inviamo un fax a casa indicando il nome del trasportatore e delle persone che abbiamo conosciuto a Belem, just in case ... come dicono gli inglesi!

La chiatta sulla quale dobbiamo imbarcarci è un pontone di cento metri di lunghezza e venti di larghezza, un gigante di ferro e ruggine che è spinto da un rimorchiatore. Sotto la pioggia battente vengono caricati trentacinque semirimorchi, un camion pieno di aranci e poi è il nostro turno; veniamo quasi incastrati fra due rimorchi, c'è comunque spazio sufficiente per aprire la porta e davanti abbiamo la vista libera sul fiume, verso il quale non c'è alcuna spalletta o protezione. Il livello dell'acqua è spaventosamente alto a causa delle grandi piogge nella foresta. Alle 7 in punto, quando ormai è buio pesto, i motori aumentano di giri e la chiatta con un potente strattone si libera dalla melma del molo e in pochi minuti siamo al centro della baia.

La prima notte di navigazione è agitata, la foce del fiume è talmente ampia che è come essere in mare aperto con onde alte che fanno oscillare il pontone e che si frangano con violenza contro le fiancate schiumando fin sotto le ruote del camper; ogni tanto si sente un tonfo sordo: sono i tronchi portati dalla corrente che sbattano contro la chiglia. Risalendo il fiume il beccheggio si attenua e finalmente possiamo prendere sonno.

Appena albeggia siamo già fuori su quello che chiamiamo il nostro "balconcino", pochi metri quadri di lamiera davanti al camper. La foce del Rio delle Amazzoni ha un'estensione di centinaia di chilometri e il fiume si divide in una miriade di canali. Tutto il giorno la chiatta si addentra in questo labirinto, in alcuni punti è talmente stretto che i rami degli alberi sfiorano i rimorchi. Pian piano prendiamo confidenza con l'ambiente che ci circonda: a bordo c'è il capitano e il suo secondo, un motorista, il suo giovane aiutante e la cuoca, cinque in tutto. I passeggeri sono Antonio, il proprietario del camion degli aranci e Jecy una india dall'incerta professione. L'equipaggio mangia e dorme sul rimorchiatore mentre Antonio e Jecy hanno steso un'amaca sotto un rimorchio. A mezzogiorno in punto è l'ora del pranzo, noi passeggeri riceviamo gli avanzi di quello che è rimasto dall'equipaggio, sempre uguale: riso, fagioli e stufato spolverato di farinha di manioca come da noi il parmigiano. I passeggeri non sono ufficialmente previsti a bordo e così la cuciniera ha ricevuto solo le razioni per se e i quattro uomini. Il mangiare non costituisce comunque un problema perché abbiamo fatto provviste prima di partire, il problema semmai è il frigo che è un potente divoratore di energia e così decidiamo di spengerlo per utilizzare le batterie solo per l'illuminazione. Il pranzo viene distribuito nella cucinetta del rimorchiatore e per arrivarci dobbiamo saltare lo spazio aperto fra il pontone e il rimorchiatore, dove turbina l'acqua rossastra e limacciosa. Molte volte preferiamo rinunciare al pranzo perché quel "saltello" ci fa passare l'appetito. Così sono interrotti i contatti con l'equipaggio che comunque non ci degna della minima attenzione.

I nostri timori iniziali, sicuramente ingiustificati, sono ormai fugati e la vita a bordo ci incomincia a piacere, il mondo che ci circonda è talmente nuovo e inusuale che è motivo di continua meraviglia. Il fiume è in piena e sull'acqua fangosa galleggiano delle piccole isole formate da tronchi, erba e rami intrecciati strappati dagli argini. La chiatta, per incontrare meno resistenza, risale la corrente sempre a pochi metri dalla riva, dal lato opposto il fiume è talmente largo che non si vede terra. La foresta scorre davanti a noi come il panorama dai finestrini di un treno in corsa: quando l'immensa massa verde si dirada, appare un piccolo villaggio di poche capanne di legno, recinti di legno delimitano i pascoli dei bovini che sono di una razza incrociata con gli zebù. I bambini si rincorrono sugli spazi erbosi a pochi passi dalla corrente impetuosa e interrompono i loro giochi per salutare. Dal segno del fango lasciato sui tronchi si vede che la piena si sta lentamente ritirando.

In navigazione sul Rio delle Amazzoni Nei punti del fiume dove la corrente è meno forte spesso indios con le loro canoe si affiancano e salgono a bordo. Non hanno i caratteri somatici degli indios puri, alcuni mostrano addirittura tratti negroidi, forse discendenti degli schiavi portati nelle piantagioni di caucciù. I grandi gruppi indigeni vivono più all'interno nella foresta. Ci offrono pesci tigrati con lunghi baffi e in cambio chiedano caffè, zucchero e soprattutto gasolio per accendere le lampade delle loro case. Guardano incuriositi all'interno del camper e ci domandano di dove veniamo - "Dall'Italia" - rispondiamo. Ci guardano interdetti e capiamo che non hanno la minima idea di "cosa" sia l'Italia. I confini della loro esistenza sono compresi nei punti del fiume che possano raggiungere con la loro canoa. Proviamo a pescare ma la lenza è troppo leggera per la corrente e rimbalza sull'acqua, ci vorrebbe un piombo di un paio di etti per mandarla a fondo, così dopo qualche tentativo rinunciamo. Per fortuna ha cessato di piovere e non pioverà più per tutta la durata della navigazione; le giornate scoloriscono in splendidi tramonti, il rosso e l'arancio cupo del cielo precipitano rapidi nel nero della selva. Siamo vicini all'equatore e il tramonto è breve, dieci minuti ed è già passato, poi tutto è avvolto nel buio. La seconda notte è una magnifica notte tropicale, dalle rive arrivano i cento rumori della foresta e ci sorprende l'assoluta mancanza di zanzare, forse si faranno vedere nella stagione quando il fiume avrà meno corrente e si formano lungo le rive stagni e laghetti.

La vita a bordo sta prendendo una sua routine. Lisa scrive lettere agli amici, l'intestazione è "In navigazione sul Rio degli Amazzoni" e poi la data. Ci sembra un sogno. Io guardo con il binocolo gli uccelli sulla riva: piccoli stormi di pappagalli rossi e blu volteggiano fra gli alberi in un chiasso assordante, aironi immobili, gazze, cormorani che si lasciano cadere in picchiata sulla superficie dell'acqua e ne risalgono tenendo nel becco piccoli pesci. Spesso incrociamo convogli di zattere di tronchi, una processione di alberi secolari abbattuti, intere foreste distrutte ed è veramente triste assistere inermi a questo saccheggio della natura. Qua e là ci sono degli spazi con i resti di vecchie segherie abbandonate e questo significa che ormai lo scempio della zona circostante è compiuto.

I grandi insediamenti lungo il corso del fiume sono pochi: Santarem, Obidos, Parintins, tutti costruiti sulla costa alta che degrada verso il fiume con lunghe scalinate di cemento.

All'altezza di Parintins si avvicina la lancia della polizia fluviale per un'ispezione; il rimorchiatore rallenta e due poliziotti, uniforme immacolata e anfibi lucidissimi, salgono a bordo con un eccezionale esercizio di equilibrismo sul bordo delle due imbarcazioni in movimento. Chiedono i documenti di navigazione e ci sembra di capire che il capitano cerchi di giustificare la nostra presenza perché sentiamo ripetere più volte la parola "italiano"; i due poliziotti scambiano due parola anche con noi; nessun problema, si può proseguire.

Navigazione sul Rio delle Amazzoni Un paio di volte al giorno ci sorpassano dei vaporetti a più piani stracarichi di passeggeri con la musica a tutto volume, sui ponti sono stati stese le amache e decine di persone si sbracciano per salutarci. Grandi navi oceaniche ci si affiancano, dall' Atlantico risalgono il Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti per arrivare fino a Iquitos in Perù.

La sesta notte di navigazione vediamo all'orizzonte un chiarore giallastro: sono le luci di Manaus, abbiamo percorso 1900 chilometri da Belem. Alle tre approdiamo alla luce dei riflettori; l'equipaggio se ne va senza neppure salutare mentre con Antonio e Jecy sono baci e abbracci, ci chiedono di mandare un copia delle foto che abbiamo scattato a bordo: lo faremo.

Manaus è una città di un milione e mezzo di abitanti isolata nel centro della foresta amazzonica con nessun collegamento terrestre con il resto del paese, tutto va e viene via fiume: dai generi alimentari alle materie prime per le industrie. Ebbe una crescita fenomenale nel secolo scorso con il boom del caucciù ma con la fine del monopolio della coltivazione dell'albero della gomma iniziò la decadenza. La zona franca ha richiamato recentemente le multinazionali che, approfittando di agevolazioni fiscali, hanno aperto le loro fabbriche. Benché le guide turistiche la definiscano "la meraviglia dell'Amazonia", in realtà Manaus offre ben poche attrattive al visitatore.

Anche qui si presenta il problema del parcheggio e alla fine troviamo accoglienza nel giardino del comando della polizia stradale. Ci tratteniamo cinque giorni, visitiamo la città vecchia con il suo teatro e il porto galleggiante; la città ha un suo fascino esotico, l'aria è satura di umidità, la gente quasi esclusivamente meticcia. Assistiamo al fenomeno unico dell'incontro delle acque scure del Rio Negro con quelle argillose del Rio Solimoes che corrono per chilometri a fianco senza mescolarsi.

La zona dei garimpeiros Lasciamo Manaus verso nord per gli ultimi mille chilometri fino al Venezuela. La strada traversa per un tratto la riserva degli indios Uaimiri che ha alle spalle una storia di violenze. Gli indigeni si opposero ferocemente al progetto della strada e non esitarono ad attaccare i soldati del Genio incaricati della costruzione. Durante gli scontri oltre duecento militari furono uccisi ma gli indios vennero decimati senza pietà. In questo tratto è proibito fermarsi e durante la notte è interrotto il transito. Arriviamo al posto di blocco poco prima del tramonto e chiediamo agli indios di guardia se possiamo pernottare a fianco della garitta; secco rifiuto, dobbiamo tornare indietro di una ventina di chilometri. Ritraversiamo in piena foresta l'equatore che è segnato da un arco e da un monumento ai militari caduti; il fatto di essere nuovamente nel nostro emisfero ci da l'impressione di essere veramente sulla via del ritorno.

L'ultima tappa è Boa Vista, la città dei garimpeiros, i cercatori d'oro. I duecento chilometri fino alla frontiera venezuelana sono quasi interamente asfaltati, del vecchio tracciato sono rimasti solo i precari ponti di legno che traversiamo a passo d'uomo. Dopo quattro mesi e mezzo è il momento di dare l'addio al Brasile, il paese che più ci ha impressionato nel nostro viaggio: per la sua natura, le città coloniali, le spiagge ma soprattutto per la sua gente, un paese dove convive, come ci diceva Paulo Rollo, il primo mondo più avanzato, con il terzo più miserevole.

Lasciato il Brasile è come se l'incanto del viaggio si sia frantumato. Ora abbiamo solo premura di arrivare a Puerto La Cruz, imbarcare il camper e tornarcene a casa.

Il Venezuela sta attraversando un periodo di profonda crisi politica e sociale, dall'ultima visita di dieci anni fa lo ritroviamo enormemente impoverito, la gente incattivita. Traversiamo la Gran Sabana e arriviamo alla costa caraibica. Piacevole sorpresa ai distributori: un litro di gasolio costa 140 lire, dieci volte meno di quello che abbiamo lasciato in Italia. Passeranno ancora settimane prima di vedere il nostro mezzo issato a bordo di un piroscafo in partenza per Livorno. Sul porto passiamo dei giorni stressanti per l'incertezza dell'imbarco, poi, finalmente rilassati, prendiamo l'aereo che ci riporterà a casa. A bordo siamo di regola misurati nelle richieste alle hostess, questa volta però chiediamo champagne: un bel brindisi alla felice conclusione del viaggio.

continua...


"La maggior parte di noi porta dentro di sé per tutta la vita un sogno, per noi questo sogno è stato quello di poter fare, un giorno, un viaggio in camper intorno al mondo. Un viaggio che si è alimentato per decenni di letture, proiezioni, incontri con persone che, con i loro racconti, ci rendevano partecipi delle loro esperienze in paesi lontani.
Poi un giorno il sogno diventa realtà e allora sei tu che vorresti trasmettere ad altri le tue emozioni.
Così è nata l'idea di scrivere un libro, che vuole essere una testimonianza della nostra esperienza attraverso i cinque continenti.
Il titolo è 'Vagator - 7 anni in camper intorno al Mondo' - che viene presentato sul sito www.campervagamondo.it."
Cesare Pastore


Viaggio effettuato nel 2000 da Cesare Pastore, www.campervagamondo.it.

Potete trovare ulteriori informazioni sulle località toccate da questo itinerario nella sezione METE.


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