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TRANSIBERIANA

Mosca Il viaggio si sta ormai avviando alla conclusione e nel mese di Giugno del 2004 iniziamo la sua ultima parte.

Già l’anno passato, quando il mezzo era parcheggiato in Thailandia, avevamo pensato di raggiungere Pechino con la Transiberiana e poi proseguire in aereo fino a Bangkok. Il progetto non si realizzò perché con l’estendersi dell’epidemia della SARS vennero interrotti i collegamenti ferroviari fra la Russia e la Cina.

Quest’anno vorremmo riprovarci, anche se il tratto in aereo è molto più lungo, però è l’ultima occasione che abbiamo per percorrere la mitica Transiberiana, altrimenti chissà se e quando si ripresenterà una simile opportunità; invece di raggiungere il Sud Africa, dove è parcheggiato il camper, con uno dei soliti, noiosi voli di una decina di ore, ci si offre l’occasione di fare una nuova e entusiasmante esperienza, sarà un viaggio nel Viaggio.

Questa volta non sembra che ci siano difficoltà di carattere burocratico, anche se la preparazione del viaggio richiede tempo per via dei numerosi visti e per la logistica delle cinque fermate che pensiamo di fare durante il percorso; vorremmo infatti evitare di fare una galoppata ininterrotta di 10.000 chilometri e per i pernottamenti in Siberia e in Mongolia abbiamo preferito all’albergo la sistemazione presso famiglie, in modo da poter osservare da vicino la vita della gente comune. Abbiamo anche prenotato un servizio di taxi in modo che in ogni stazione ci sia qualcuno ad attenderci, perché non ci piace affatto di arrivare in piena notte in città sconosciute.

Mosca: il Cremlino La sera del 13 di Giugno stiamo aspettando il locale in ritardo per Firenze nella vecchia stazione di Porta a Serraglio, da dove partivano i pratesi prima della costruzione della Direttissima; nonostante la primavera avanzata fa freddo e la pensilina è presa di infilata dal tramontano che soffia dalla Val di Bisenzio. Con noi ci sarà Giovanni Pagotto, che alla fine degli anni Cinquanta è stato compagno di viaggi giovanili in autostop attraverso l’Europa, lui salirà sul nostro treno a Venezia.

Arrivati a Vienna ci godiamo la città in una bella giornata di sole e poi a sera prendiamo il treno per Mosca. Il passaggio delle frontiere con la Repubblica Ceca e la Polonia non è più traumatico come un tempo, anche questi paesi fanno parte oggi della grande famiglia europea e il controllo dei passaporti è ormai una pura formalità. Il ridente paesaggio austriaco con le case dai balconi ricolmi di gerani fioriti e i verdi pascoli è ormai dietro di noi e man mano che procediamo verso Est aumenta il grigiore che domina sulla campagna e sui pochi centri abitati che attraversiamo.

A Brest, al confine con la Bielorussia, facciamo una lunga sosta: grandi gru sollevano i vagoni e vengono montati i carrelli a scartamento più largo. Dopo una seconda notte di treno alle sette di mattina arriviamo a Mosca nella storica stazione Belorusskaya dipinta di bianco e verde; ne avevamo un’immagine letteraria dal romanzo "Anna Karenina" e niente sembra essere cambiato dai tempi di Leone Tolstoi.

Binari ... Mosca, almeno nei suoi quartieri centrali, si può scambiare con una qualsiasi altra capitale europea e ci si presenta come un enorme cantiere: ovunque vengono demoliti vecchi edifici per far posto a moderni palazzi. Il paese è ormai orientato verso un consumismo anche troppo ostentato: donne eleganti, vetrine dei più famosi stilisti italiani, automobili di grossa cilindrata. Dalla finestra del nostro albergo, l’immenso Rossija di oltre 4.000 camere, la vista sulle cupole della basilica di San Basilio, le mura del Cremlino e la Piazza Rossa ci fa sorvolare sui rubinetti gocciolanti, la moquette spelacchiata e le bruciature delle sigarette sui ripiani dei mobili coperti di polvere.

Il viaggio verso Oriente inizia dalla stazione di Yaroslavsky, costruita sul modello di un antico forte Medioevale. Il treno, dipinto di un blu acceso, è già in attesa sul primo binario e possiamo salire. Il nostro scompartimento è spazioso, ai finestrini ci sono tendine candide con una sopratenda azzurra, non si possono aprire ma l’aria condizionata funziona alla perfezione; l’impressione generale è di ordine e pulizia. In fondo al corridoio c’è una caldaia elettrica che fornisce acqua bollente durante tutto il viaggio, i bagni sono più che decenti. Gli scompartimenti sono tutti identici, noi che viaggiamo in prima classe ne abbiamo uno tutto a disposizione, per i viaggiatori di seconda classe ci sono quattro cuccette. Alla sorveglianza di ogni vagone sono incaricate due provodnitsa, sulle quali nei racconti di viaggio viene spesso ironizzato, ma le nostre sono molto diligenti e disponibili, anche se concedono poca confidenza ai viaggiatori; indossono un’uniforme azzurra con bottoni blu e quando devono fare le pulizie o servire la cambiano con una specie di gabbanella. Venditrici ad una stazione

Avevamo anche letto di partenzecaotiche, di masse di ambulanti mongoli e cinesi che assalivano il treno per trovare posto per i fagotti della loro mercanzia. Questo forse avveniva nei primi anni dopo la caduta del sistema, oggi i passeggeri attendono in fila davanti alla porta del vagone e una volta che Elena e Tatiana, le due sorveglianti, hanno controllato il biglietto, vengono accompagnati allo scompartimento.

Appena la lancetta dell’orologio alla fine del binario scatta sulle cinque, trilla il fischietto del capostazione e il viaggio ha inizio. Il treno impiega molti chilometri prima di acquistare velocità, prima attraversiamo la sterminata periferia di Mosca, una selva di alti casermoni in mezzo a spiazzi pieni di fango, poi passiamo accanto a un enorme cimitero, dove l’erba cresce più alta delle tombe e dopo quasi un’ora siamo finalmente in aperta campagna. Il tempo è grigio e frequenti piovaschi si alternano a sprazzi di sereno.

Il paesaggio per i prossimi giorni non offrirà grandi variazioni: boschi di abeti e betulle si alternano a campi coltivati, i villaggi sono a grande distanza l’uno dall’altro e sono formati da poche case sparse, quasi tutte di legno e con intorno un orto, un pezzo di terreno coltivato a patate e la catasta di legna per l’inverno, i pochi edifici in muratura sono quelli pubblici e la scuola, le strade non sono asfaltate. Quando il treno sfreccia davanti a questi villaggi, il casellante in uniforme esce dalla sua garitta e si mette sull’attenti come un soldatino tenendo la bandierina con il braccio teso; ai passaggi a livello e alle stazioni ci sono ancora i cartelli sbiaditi della propaganda comunista, simboli di un’ideologia ormai morta e sepolta.

Una stazione Di notte passiamo gli Urali e l’avvertiamo solo per il lento salire del treno che compie ampie curve e al chilometro 1.777 siamo ufficialmente in Asia.

Ci siamo abituati facilmente al dondolio e alla vita in movimento che ha assunto una sua routine, passiamo la mattinata leggendo e guardando per ore, senza un filo di noia, fuori dal finestrino, a pranzo mangiamo quello che abbiamo comprato dalle babushka durante le brevi soste: minestre calde, ravioli, uova sode, una volta compriamo anche un pestilenziale pesce affumicato il cui odore penetrante ci perseguiterà fino a Novosibirsk. La sera andiamo nel vagone ristorante, dove siamo quasi sempre gli unici ospiti, per mangiare una pietanza insipida e bere una birra tiepida. I nostri vicini sono tutti russi e possiamo scambiare con loro solo brevi frasi in un inglese stentato, i tavolini dei loro scompartimenti sono costantemente imbanditi con le cibarie che si sono portati da casa, alcuni hanno indossato un training da ginnastica ma la maggior parte si è messa in pigiama da notte, così che il vagone ha assunto l’aspetto, non proprio elegante, di una corsia di ospedale.

Quando ci fermiamo in una piccola città la sosta dura solo due minuti e non è permesso scendere, invece nelle città più grandi, come Perm o Yekaterinburg, la fermata è più lunga e allora facciamo due passi lungo la pensilina per sgranchirci le gambe; le due provodnitsa si piazzano davanti allo sportello facendo attenzione che nessun estraneo salga sul treno e il poliziotto di servizio, un omone alto due metri in uniforme nera e la scritta gialla "Militia" sulla schiena, inizia la sua ronda lungo i corridoi.

La sicurezza a bordo del treno è assoluta e anche i racconti di furti e rapine di cui avevamo letto appartengono a un passato ormai superato o forse erano solo delle esagerazioni; chi scrive di viaggi ama spesso raccontare le proprie esperienze, che sono immancabilmente "avventure", in termini sensazionali enfatizzando i pericoli e le situazioni di difficoltà tendendo anche a generalizzare singoli episodi negativi. Sul treno Samovar La notte, prima di andare a dormire, per sicurezza passiamo una catena e un lucchetto attraverso il chiavistello della porta dello scompartimento, ma francamente è un eccesso di prudenza. Il treno continua a marciare in perfetto orario, gli arrivi, le soste e le partenze spaccano letteralmente il minuto.

Traversiamo un lungo ponte di ferro sul fiume Ob e arriviamo a Novosibirsk; ad attenderci c’è l’incaricato dell’agenzia che ci porta dalla famiglia che ci ospiterà per i prossimi due giorni; l’abitazione è ad oltre venti chilometri dal centro in un quartiere satellite isolato nella campagna. Si tratta del tipico bloku, un edificio alto una decina di piani, identico alle altre migliaia che abbiamo visto fino ad ora, ha l’intonaco che cade a pezzi e nell’ingresso c’è una puzza nauseante di spazzatura fermentata, l’appartamento però è pulito. Io e Lisa dormiamo su un divano letto in salotto e Giovanni nella stanzina della figlia.

Novosibirsk ha quasi due milioni di abitanti ed è uno dei grandi centri nati durante il periodo sovietico lungo la Transiberiana. Anonimi palazzi grigi tutti uguali sorgono lungo strade larghissime i cui nomi sono rimasti gli stessi che avevano durante il vecchio regime. La statua di bronzo di Lenin, che con il braccio teso indica a uno stuolo di operai e contadini la via verso un futuro radioso, è ancora al suo posto davanti al teatro dell’Opera e la grande arteria prospiciente è sempre la Ploshchad Lenina. Il traffico è formato da vecchie Lada e da filobus dalla carrozzerie scrostate, la gente è vestita modestamente e ha stampata sul volto l’espressione triste di chi è nato e cresciuto sotto un sistema autoritario, immagini che mi riportano alla memoria Berlino Est e la vecchia DDR; i magazzini e i supermercati, i cui scaffali sono comunque ben riforniti, espongono merci autarchiche.

Ragazza a Irkutsk Riprendendo il viaggio il paesaggio lentamente cambia e le grandi distese boscose lasciano il posto a una bassa prateria, pianure assolate senza fine sfilano davanti al nostro finestrino per due giorni interi prima di arrivare a Irkutsk. Alla sua periferia c’è una grande acciaieria abbandonata e ormai ridotta ad un rudere, poco oltre vediamo altri complessi industriali cadenti, vecchi capannoni sfondati, ciminiere diroccate, un quadro di autentica archeologia industriale.

Poco prima della stazione centrale in mezzo alle erbacce c’è un intrigo di binari morti su cui sono state abbandonate centinaia di vecchie locomotive e vagoni cisterna fermi da chissà quanto tempo. Irkutsk è la città con maggiore storia e tradizione della Siberia e anche qui veniamo ospitati da una famiglia. Ci rendiamo conto che purtroppo in Russia non esiste una cultura dell’accoglienza, come per esempio da noi l’agriturismo, o lo Zimmer frei in Germania o i B&B inglesi. L’ospite, che è considerato e trattato spesso come un intruso, si sente a disagio, perché vede che la sua presenza ha creato scompiglio e che l’intera famiglia magari si è dovuta restringere per mettergli una camera a disposizione.

A Irkutsk abitiamo in una vecchia casa di mattoni in pieno centro, i nostri ospiti sono una signora di mezza età e il suo figlio adolescente, che parla un discreto inglese e che fa di tutto per rendersi antipatico; la colazione, molto modesta, ci viene servita di mala grazia e il nostro "good morning" resta senza risposta. L’idea di scegliere il pernottamento presso privati non è stata molto felice.

Finestre a Irkutsk Il centro della città è rimasto intatto dal secolo scorso ed è piacevole camminare per le strade su cui si affacciano le vecchie case di legno con le facciate e i contorni delle finestre traforati e dipinti di verde o azzurro.

Tutte le strade sono fiancheggiate da file di pioppi che in questo periodo sono in fiore e lasciano cadere una fitta coltre di bambagia così che si ha l’impressione di essere sotto una surreale nevicata, sui marciapiedi ci sono fiocchi candidi dello spessore di una decina di centimetri.

Fa un caldo torrido con una temperatura di oltre 30 gradi all’ombra e l’asfalto si scioglie sotto le suole delle scarpe, nei parchi e lungo le rive del fiume Angara la gente è in costume a prendere il sole e in campagna i contadini lavorano a dorso nudo.

Dedichiamo una giornata alla visita del Lago Baikal, che è appena ad una sessantina di chilometri dalla città, e tutta la regione è coperta da una bellissima foresta che arriva fino alle acque trasparenti del lago.

Nella steppa in Mongolia In partenza da Irkutsk ci attende il treno mongolo, molto più vecchio e sporco di quello russo, il samovar nel corridoio funziona a carbone e il fumo invade l’intero vagone. Le sorveglianti sono due simpatiche tracagnotte mongole dalle uniformi bisunte. A bordo questa volta ci sono più stranieri che locali e negli scompartimenti accanto al nostro c’è un gruppo di giovani australiani, che hanno battezzato la Transiberiana vodka train e infatti tutta la compagnia è brilla e traballante dalla mattina alla sera. Passata Ulan Ute ci stacchiamo dalla linea principale, che prosegue per Vladivostok, e puntiamo a sud verso la Mongolia.

Alla stazione prima del confine mongolo nello scompartimento all’estremità del nostro vagone c’è un’attività frenetica: un gruppo di facchini scarica nel corridoio una decina di cartoni pieni di stecche di sigarette che vengono sistemate sotto i sedili e infilate, dopo aver svitato i pannelli, nell’intercapedine del soffitto. Quando il treno parte restano solo due donne mongole di mezza età dall’aria risoluta. Abbiamo seguito fin dall’inizio tutto il tramenio e ora siamo curiosi di vederne la conclusione. I doganieri russi controllano tutti gli scompartimenti, ma quando arrivano all’ultimo fanno dietrofront e fra loro e le due mongole è tutto uno scambiarsi di occhiate e di cenni, evidentemente si conoscono bene.

Monaci in Mongolia Lasciato il posto di confine russo il treno percorre una decina di chilometri di terra di nessuno prima di arrivare a quello mongolo e durante questo breve tratto le due donne recuperano tutte le stecche e riescono a rinfilarle negli scatoloni, che erano stati piegati e messi sul portabagagli; lavorano con una velocità incredibile perché il tempo a disposizione è poco, i cartoni vengono sigillati con il nastro adesivo e portati sul predellino esterno e poco prima della stazione di Suekhbaatar, quando il treno comincia a rallentare, vengono gettati lungo la scarpata, dove un gruppo di uomini corre a raccoglierli.

Le due mongole sono sudate ma soddisfatte, si sono accorte che abbiamo osservato le loro manovre e ci sorridono mettendo in mostra una bella fila di incisivi incapsulati in oro e ci fanno il segno di OK chiudendo a cerchio il pollice e l’indice della mano destra, per dirci che anche questa volta è andato tutto liscio, si rassettano poi la gonna tenuta da una larga fascia violetta e scendono dal treno. Abbiamo assistito a un divertente scampolo di quei traffici che dovevano avvenire in grande stile sulla Transiberiana fino a qualche anno fa.

In Mongolia termina la linea elettrica e viene agganciato un fumoso locomotore diesel.

Ulan Baatar: il tempio Dopo una sosta di oltre cinque ore si parte e il treno corre sferragliando attraverso la steppa verde verso la capitale Ulaan Bataar, in lontananza si scorge qualche yurta solitaria o una mandria di cavalli al pascolo, quei cavallini in groppa ai quali i mongoli conquistarono un impero immenso che andava dalla Cina fino al cuore dell’Europa.

Ulan Baatar è una città costruita in puro stile sovietico con larghi viali, grandi palazzi e nella piazza principale, smisurata, sorge il mausoleo, copia di quello a Lenin, dove riposano le spoglie di Damdin Sukhbaatar, l’eroe della rivoluzione.

Ormai però anche la Mongolia si è risvegliata dal lungo torpore socialista e il processo di modernizzazione sta incalzando: per le strade della capitale è possibile ancora vedere donne nei costumi tradizionali e pastori a cavallo, ma ci sono anche tanti giovani con il telefonino incollato all’orecchio al volante di potenti gipponi giapponesi.

Il paese sta ritrovando anche la sua antica tradizione buddista e i monasteri scampati alle distruzioni staliniste sono stati riaperti e sono affollati di giovani monaci e di novizi.

Pechino L’ultimo tratto fino a Pechino lo facciamo su un treno cinese, dove gli scompartimenti di prima classe hanno il lusso di avere il bagno privato. Il verde della steppa si trasforma lentamente nel giallo della sabbia del deserto di Gobi e i cammelli prendono il posto dei cavalli.

L’entrata in Cina è segnata da una specie di arco di trionfo e ai vagoni vengono cambiati nuovamente i carrelli; siamo nel paese più popolato del mondo e si vede subito appena passata la frontiera: grandi città e paesi si susseguono e ogni fazzoletto di terra è coltivato, l’impressione generale però è quella di attraversare un paese molto povero.

Il treno si insinua in strette vallate e cominciamo a vedere la Grande Muraglia, che si snoda serpeggiante lungo il profilo delle montagne, dopo poche ore arriviamo a Pechino.

Il viaggio è durato complessivamente ventiquattro giorni e, anche se non ci sono stati avvenimenti memorabili, è stata un’esperienza interessante che ci ha permesso di vedere un angolo remoto di mondo, che non avremmo mai visto se avessimo preso l’aereo.

La Grande Muraglia


"La maggior parte di noi porta dentro di sé per tutta la vita un sogno, per noi questo sogno è stato quello di poter fare, un giorno, un viaggio in camper intorno al mondo. Un viaggio che si è alimentato per decenni di letture, proiezioni, incontri con persone che, con i loro racconti, ci rendevano partecipi delle loro esperienze in paesi lontani.
Poi un giorno il sogno diventa realtà e allora sei tu che vorresti trasmettere ad altri le tue emozioni.
Così è nata l'idea di scrivere un libro, che vuole essere una testimonianza della nostra esperienza attraverso i cinque continenti.
Il titolo è 'Vagator - 7 anni in camper intorno al Mondo' - che viene presentato sul sito www.campervagamondo.it.
Cesare Pastore


Viaggio effettuato nel 2004 da Cesare Pastore, www.campervagamondo.it.

Potete trovare ulteriori informazioni sulle località toccate da questo itinerario nella sezione METE.


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