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Mia nonna, che mi teneva con sé tutte le estati, lavorava a servizio nella casa di quell’uomo che le aveva affittato un piccolo appartamento (quasi una soffitta) sui tetti di detta dimora. La casa, già antica allora (1500), vista da fuori, aveva al primo piano i finestroni dell’appartamento padronale che si affacciavano sulla via Flaminia (oggi via Pergamino), al secondo, finestre più piccole di altre dimore e, sorpresa, sul tetto in mezzo alle tegole rosse assolate, un terrazzino nascosto alla vista, circondato da un muretto e addossato al monte. Era la terrazza della casa di mia nonna, un luogo dedicato ai giochi (i miei), un luogo dedicato ai contatti con altre persone (sul tetto c’era un sentierino che attraverso il monte metteva in comunicazione la casa di fianco), un luogo dedicato al “cibo” (incassata nel monte, c’era una nicchia chiusa da una rete dove c’erano le galline e… le uova), un luogo dedicato al riposo (il monte aveva alberi e siepi che facevano un po’ d’ombra e mia nonna a volte stava lì a giocare a carte con la sua vicina, Sora Maria Mazzi), un luogo remoto incastonato sul tetto, attaccato al monte come tutta la casa. L’entrata principale, al pianterreno, consisteva in uno spesso portone a due ante di grosso legno grigio chiuso da un catenaccio da un lato e con una mandata di chiave dall’altro (la chiave era una di quelle di ferro grandissima e arrugginita). L’androne che si sviluppava al suo interno era fresco e buio e molto alto, sul fondo continuava svoltando ad angolo dirigendosi verso un grande scalone di marmo che portava ai piani. Il grande corridoio era delimitato sulla sinistra da 3 cancellate divise da colonne che racchiudevano un piccolo giardino interno ricavato in uno slargo della montagna dove, grazie alla costante umidità della quale si percepiva immancabilmente l’odore, crescevano rigogliose piante di oleandro e di yucca insieme ad alcune palme che incorniciavano la posa plastica di alcune statue bianche. Il luogo era immerso in una penombra quotidiana ed il silenzio era rotto solamente dallo sgocciolio di qualche fontanella nascosta tra le piante. Mia nonna si curava di questo luogo, si occupava della pulizia delle scale e del resto della casa, dei piani e dei poggioli colonnati che salivano fino ai piani superiori. Era tutto di marmo e tutto aveva un colore tenue e rosato che si riscontra ancora spesso nelle architetture storiche della zona. Nei pomeriggi di luglio o di agosto, quando il caldo impediva qualsiasi attività e impediva pure di appisolarsi, prendevamo le sedie di casa e scendevamo fin dietro al portone dell’androne e mentre io giocavo, lei si intratteneva con le vicine che cucivano, ricamavano, chiacchieravano e si godevano la fresca penombra umida odorosa di cantina vecchia. Non c’era nulla con il quale io potessi farmi del male, ero in totale libertà, potevo arrampicarmi anche sopra ad una specie di busto di marmo incompiuto che era stato lasciato lì chissà da chi ed era grande come la 500 di mia zia che veniva parcheggiata nel porticato. Per accedere alla casa di nonna dovevamo salire gli scaloni fino all’ultimo piano, i soffitti a volta rimandavano l’ eco dei nostri passi e delle nostre voci che si rincorrevano tra i grandi colonnati dei poggioli. C’erano persino le rondini che facevano il nido sotto alle volte della balconate che si affacciavano sul giardino sottostante e con i loro acuti versi ci passavano sulla testa in volo radente accompagnandoci mentre salivamo. Una volta arrivati, sulla sinistra sopra ad una soglia di alcuni gradini, c’era una piccola porticina in legno fatta di assi come quelle di alcune cantine, al di là di essa bisognava salire un’altra ripida scala, questa volta di pietra, tirata a lucido con la cera rossa, quella che macchiava i piedi quando si girava scalzi. Da quel punto in poi iniziava il regno della Fata Peppa, la soffitta incantata dove mi veniva narrata la favola delle mie vacanze, la storia antica dei racconti e degli insegnamenti che solamente una donna del suo stampo mi ha potuto lasciare in eredità. Appena in cima alle scale c’erano, la cucina sulla destra, di fronte la sala con la camera da letto e il bagno sulla sinistra. Niente di strano, penserete, infatti tutto sarebbe potuto sembrare un comunissimo appartamento se non fosse per il fatto che tutto, ma proprio tutto era su piani diversi. Scale, scalini, gradini dappertutto, in pietra, in legno, per andare in bagno, in camera, in terrazza, in soffitta…sì, in soffitta, perché c’era una soffitta nella soffitta dove dormiva,da solo, mio nonno e lì, c’era un’altra scaletta di legno a pioli che portava ancora più su, ancora in un’altra soffitta, quella vera, dove c’erano tutti i ricordi di altri tempi…il paradiso del tarlo…e della polvere! Potrei raccontare di ogni ambiente tanto sono chiari nella mia memoria, senza dimenticarmi della più piccola crepa del muro, e nemmeno del più piccolo gradino. Quella casa era come un castello incantato dove tutto diventava un gioco, ogni angolo nascondeva stimoli e dove era normale, dopo essere saliti sull’ennesima scala di legno, uscire da una finestra, arrivare in un terrazzo sul tetto e fare il bagno in una grande tinozza di metallo con l’acqua riscaldata dal sole. Mi lavavano così, nel bagno non c’erano né vasca né bidè ma almeno due gradini, uno per arrivare al lavandino e l’altro per arrivare al water. Dalla sala, senza dimenticarsi di salire un ulteriore scalino, si accedeva alla camera da letto dove dormivano mia nonna e mia zia. Durante le vacanze estive, quando arrivavano i miei genitori e l’altra sorella di mia mamma da Genova con il marito e i figli, eravamo almeno in dieci e si doveva mettere tutti a letto quindi si saliva sù, al paradiso del tarlo, a recuperare le reti e i materassi che naturalmente non bastavano per tutti. A quel punto scattava l’operazione “canotto” che consisteva nel gonfiare per benino quello che normalmente veniva portato al mare con noi, rovesciarlo e ricoprirlo con una coperta imbottita, farne regolarmente un letto e mettermici a dormire per tutta la durata della nostre vacanze in famiglia. Credo di non aver mai dormito così bene come a quei tempi e di non aver mai giocato così tanto e soprattutto riso così tanto. A ripensarci, quanto mi si allarga il cuore. Cara Fata Nonna Peppa, lei sapeva tutto della vita, mi rendo conto che la sua capacità di sapersela cavare sempre, sia stata dettata sicuramente più dalle necessità che da una vera e propria dote, ma certamente certe persone ne sono più portate di altre. Il preoccuparsi di trovare sempre il cibo per la famiglia le era rimasto anche in tempi in cui si aveva più benessere e quando c’eravamo tutti, ogni occasione di procurarsi del cibo gratis faceva muovere in lei quella determinazione che la rendeva speciale. La soffitta del tarlo era uno dei suoi territori di caccia. Fra le travi ed i controsoffitti, in mezzo alle tegole, c’erano alcuni lucernai dove i piccioni facevano il nido e la razzia (a qualcuno potrà sembrare una cosa abominevole), avveniva poco prima che il pulcino spiccasse il primo volo, per questo andavano controllati spesso e io la accompagnavo. Ci muovevamo piano nel buio polveroso spezzato da lame dorate di sole che filtrava dal tetto, in silenzio salivamo su sedie vecchie e casse di legno lasciate appositamente in corrispondenza di ogni lucernaio e, in mezzo a ragni gambelunghe, spiavamo i nidi che contenevano due o tre piccoli. Quando veniva il momento, mia nonna saliva da sola e ritornava con qualche piccione morto facendomi credere di averli trovati così. Il trauma della morte in diretta è una cosa che mi ha sempre risparmiato. In cucina o nel famoso terrazzino, sopra ad una pentola di acqua bollente, si metteva a spiumare le bestiole poi faceva un trito con il loro fegato, uova, formaggio e pangrattato, le riempiva legandole con uno spago e le cuoceva. Per tutti erano una prelibatezza ma a me il piccione non è mai piaciuto tanto. Anche la preparazione di certi cibi diventava spunto di insegnamento, le millefoglie per esempio, erano una specie di lasagna con sugo di carne che andava cotta in forno, ma eravamo in tanti e il forno era quello di una cucina economica a legna, quindi troppo piccolo. A quel punto, dopo aver preparato il cibo in teglie di vetro coperte da canovacci a quadri, si partiva verso le nove o le dieci del mattino per un piccolo viaggio a piedi, ci si recava al forno, quello grande a legna del fornaio che non si era ancora spento, e lì veniva permesso a molte massaie del paese di cuocere i loro manicaretti. A mezzogiorno in punto suonava una sirena, probabilmente superstite di qualche richiamo antiaereo dell’epoca di guerra, che scandiva i ritmi del paese e ci faceva ripartire per il viaggio di recupero delle lasagne cotte. A volte non erano solo le lasagne ad avere bisogno del forno ma anche patate e arrosti vari e, crescere con quei cibi e quei sapori, mi ha mantenuto inalterato nel tempo un rapporto mistico con la cucina tradizionale, fatta di gusti forti e decisi, di agli e di lardi, cotenne, rosmarini e spezie che incantano tutt’ora palato e olfatto.quote:Risposta al messaggio di tott i de inserito in data 08/02/2011 22:45:00 (Visualizza messaggio in nuova finestra)>> l'ho letta tutta d'un fiato.Mi ricorda tanto del mio tanto tempo fa, anche se i luoghi...e le pietanze... non sono identiche. Avrei voluto che tu l'avessi scritta in piazzola, il posto giusto del "Ritorno al Passato". E mi piacerebbe averti ospite (gradito) da noi, qualche volta. Cordiali saluti Silvio