Inserito il 31/03/2011 alle: 12:26:46
Osteria, questa…conosciuta!
Osteria, quella vera, dei nostri nonni, quella dove si andava, a qualsiasi ora, sempre aperta e sempre generosa, quella che ascoltava i loro problemi, ascoltava le loro voci e le loro idee, ma ascoltava anche i discorsi sul loro incerto futuro; in vino veritas, e a colpi di Bianchello del Metauro, quante verità!
Erano altri tempi e…io ringrazio per averli, in parte vissuti.
Per chi mi ha già “ascoltato” scrivere, ho raccontato che passavo le mie estati a Fossombrone, paesello marchigiano, io lì, ci sono diventato grande e, il nonno che avevo, mi portava spesso con lui, naturalmente contro il parere della nonna, lui aveva un po’ il vizietto, quello del gomito alto,
ed era sempre ben più che allegro,ma…quante storie, quante lezioni di vita, quante persone lì all’osteria.
Io, bimbo bolognese, ero da svezzare, terreno fertile tra le grinfie dei più maliziosi, intanto, l’ambiente era di quelli classicamente goliardici, e, quanto basta sboccati.
La porta a vetri trasparenti e profilati di legno, sosteneva mezze tendine bianche di corone che non venivano lavate dal tempo dell’apertura, chissà in quale 1900.
All’interno dei locali seminterrati con i soffitti a volta, una fresca penombra con un odore asprigno, pungente e rancido che, sovrastava di gran lunga quello del tabacco nazionale.
Sul pavimento di cotto rosso troneggiava un bancone di legno vissuto, macchiato e consumato, con sopra file di bicchieri tutti uguali dalla forma troncoconica e di vetro spesso e verdastro.
Dietro al bancone, una serie di mensole fissate al muro con staffe precarie, erano la vetrina dei prodotti della casa: grossi bottiglioni pieni di liquido paglierino, fiaschi impagliati, brocche e caraffe dello stesso vetro dei bicchieri e misure per il vino, litro,mezzo litro e quartino.
Relegate in un angolo, qualche bottiglia di pregio tipo Grappe o Amari ma soprattutto Vermouth.
Lui, l’oste, sovrano incontrastato del suo regno, moderatore per eccellenza degli animi di tutti gli avventori, consigliere pubblico e privato e dispensatore di medicamenti naturali e rimedi corroboranti, “il bicchierino al momento giusto”, peccato che per molti dei suoi clienti, il momento era “sempre” quello giusto e lui aveva il suo bel da fare per mantenere l’ordine.
Romolo, era il suo nome, un ometto di media statura con la faccia da oste per antonomasia, occhietto ceruleo vispo e acquoso, naso a patata dal colore rubizzo e guance solcate da ragnatele di venuzze violette, lucida fronte spaziosa e capelli grigi lisciati all’indietro, grembiulone un tempo bianco riannodato davanti e strofinaccio casual buttato sulla spalla.
Per i bambini…non c’era nulla, forse solo lo zucchero per il caffè che era fatto dalla moglie dell’oste nel retrobottega e solamente all’occasione.
Tra le volte, forse in origine intonacate di bianco, ma che avevano ormai assunto le sfumature delle aurore boreali, svolazzavano in cerchi monotoni sciami di mosche e moscerini.
Alle pareti, generalmente spoglie, qualche quadretto che voleva timidamente dare una parvenza di rispettabilità e calendari delle più diverse annate.
Ma, nei miei ricordi, le parti più caratteristiche di quelle osterie erano i tavolini.
Microcosmi, organismi viventi autonomi a tutti gli effetti, mantenuti idratati dal continuo apporto di liquido “vinoso” da dove, continue escalation di voci si susseguivano, a volte pacate, a volte con toni robusti, altre in scoppi improvvisi e repentini, sopra ad un piano solcato e appiccicoso dove regnavano indiscusse regine, le carte.
All’osteria si andava a bere ma anche a giocare a carte e le due attività assieme creavano quella caratteristica peculiare di quell’ambiente.
Io, vicino a quei tavoli a guardare, venivo considerato, dovevo guardare e imparare, a volte venivo deriso della mia fanciullezza, ma comunque facevo parte di loro, ero il loro futuro e tra fumo, vino e bestemmie, ho imparato.
C’era chi beveva per dimenticare, erano comunque anni difficili.
C’era chi beveva per amore…del vino.
C’era chi lo faceva per…sport…come mio nonno che il più delle volte ne veniva trascinato.
E c’era chi lo faceva per stare in compagnia, per parlare con gli altri, per socializzare, trovare lavoro e guardare avanti e…poi…se ci si ubriacava …al massimo si tornava a casa in bicicletta cantando e per strada non c’era mai nessuno.
Un ubriaco, allora, era quasi sempre tendenzialmente innocuo e veniva riaccompagnato dagli amici, quelli meno ubriachi di lui.
Poi, a casa, c’era sempre chi, per amore o per forza, se ne sarebbe occupata.
Colei che, militante nell’ombra, riassemblava i cocci, colei che facente parte delle schiere delle nostre nonne, apparentemente non c’era lì all’osteria ma sapeva che dopotutto era un luogo innocuo.
Non sempre quello che ci sembra brutto e sporco è male, e per parafrasare il grande De Andrè :
“Dai diamanti non nasce niente….dal letame nascono i fior…”.
Tra i nostri nonni ci saranno sicuramente stati quelli brutti, sporchi e farabutti, per quello che mi riguarda, ho avuto fortuna, nelle sue piccolezze e meschinità mio nonno ha lasciato un segno tangibile, quello dell’osteria che , come luogo di perdizione à stata per me più maestra che altro.
Non sarò di certo un fiore ma, come “pianta” non me la cavo poi tanto male, il concime mi è stato dato nel modo giusto, mi hanno fatto conoscere il bene e il male e a giuste dosi, anch’io me ne sono servito.
Sono diventato grande e tutti loro, gli avventori dell’osteria, peccatori, bestemmiatori e ubriaconi, ormai sicuramente morti da tempo, meritano di essere ricordati perché, nella loro piccolezza di uomini di allora, sono sicuramente stati migliori di tanti “uomini piccoli” di oggi che con il “bere” hanno un rapporto diciamo più “difficile” e purtroppo, fanno paura.