Mi avevano dimesso dalla Cardiologia, dove ero stato ricoverato per
un problema di aritmia cardiaca, che aveva dovuto essere risolto con una
buona scarica di defibrillatore. Mi avevano consigliato una settimana di riposo
e di calma.
Ero uscito a piedi per comperare i giornali. Il maestrale, che fino al
giorno prima soffiava impetuoso, era cessato; l’aria era calma e gradevole,
il sole irraggiava un piacevole tepore; mancava solo il profumo degli alberi
in fiore, soverchiato dai gas di scarico delle auto.
Durante gli otto giorni di ricovero avevo rischiato seriamente una crisi
depressiva. L’assistenza era stata delle migliori, per competenza, disponibilità
e cortesia dei medici e del personale. Ma l’essere costretto in pochi
metri quadrati, quasi totalmente occupati da un letto, un comodino e una
sedia, contando le ore che non passavano mai, né di giorno, né, soprattutto,
di notte, quando erano scandite dal periodico ronzio dei cicalini dei sistemi
di monitoraggio, costituiva una vera tortura psicologica.
Contribuivano ad accrescere lo sconforto la visione del piccolo monitor
su cui scorreva il tracciato della mia attività cardiaca, dal ritmo inesorabilmente
irregolare, e la convivenza stretta con compagni di stanza, anche
più giovani di me, che, al minimo sforzo, accusavano una crisi stenocardica
e dovevano essere trasferiti d’urgenza in terapia intensiva. Tutto
ciò mi aveva messo bruscamente di fronte alla fragilità della mia condizione
umana e mi creava paurose sensazioni di angoscia.
Non era la prima volta che il pensiero dell’inevitabile decadimento
che prelude alla fine si presentava alla mia coscienza; ma l’impatto col
primo concreto segnale d’allarme è cosa totalmente diversa da un’idea che
ci sfiora di tanto in tanto e che scacciamo quasi con fastidio, dicendoci fra
noi, come la Rossella di “Via col vento”: ci penserò domani.
Quei giorni interminabili passati in Ospedale mi sembravano rubati ad
una vita che ancora mi apparteneva. Per questo, riacquistata la libertà, il
mondo mi sembrava così bello.id="blue">
Queste cose le scrisse mio padre. Era un medico e visse quell’esperienza per così dire con cognizione di causa. Aveva allora 73 anni e dopo quel giorno ne visse altri venti. Mica male no?
Per me è e resterà il miglior pensiero-augurio che si possa dedicare a chi entra in un ospedale.

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