Quell’anno, la primavera si era presentata con violenza.
Non era ancora arrivato il giorno fatidico col quale il calendario sanciva la sua incoronazione, che i prati, gli alberi e i fiori tutti, acclamavano con un tripudio di colori il suo imminente arrivo.
L’aria già mite invogliava a stare all’aperto e tra gli equipaggi e le ciurme camperistiche serpeggiava, faticosamente trattenuta, la voglia di ricominciare a muoversi.
Il duro inverno trascorso aveva messo alla prova le carrozzerie e le varie meccaniche delle bianche flotte ormeggiate in ricoveri all’aperto.
Nei rimessaggi, gruppi di comandanti supportati da mozzi di tutte le età, avevano iniziato quelle procedure obbligatorie e immancabili che avrebbero riportato, in men che non si dica, le loro unità mobili al loro atavico splendore, svettanti col vento in poppa, sulle strade del mondo.
Il duro inverno, aveva però lasciato anche dei segni indelebili.
Nel rimessaggio, risaputamente affollatissimo, si erano accorti tutti di quegli ormeggi desolatamente vuoti.
Quegli spazi spiccavano come fari nella notte.
Tra il vasto biancore dei camper, quei rettangoli di spazio lasciavano nell’animo di molti un senso di malcelata malinconia.
Sapevano tutti che non erano stati lasciati vuoti da anticipate partenze fuori stagione ma erano stati definitivamente abbandonati.
I comandanti di quelle navi alla deriva, non sarebbero mai più tornati, il venticello che si era abbattuto su di loro, si era per molti, troppi, trasformato in bufera e poi in tempesta e, infine, un uragano di proporzioni inaudite aveva strappato tutte le loro sicurezze e il triste e doloroso abbandono della loro nave si manifestava in quei rettangoli che adesso, la primavera vigliacca, ricopriva di prato verdissimo.
E adesso, tutti gli altri, stavano a guardare come pinguini su uno scoglio, stavano aspettando il momento esatto in cui lo squalo si sarebbe mangiato anche loro.
Ma, la forza di sopravvivenza, come si sa, ha sempre la meglio, e finchè c’è un filo di vita c’è sempre un filo di speranza e quindi erano, come sempre, tutti li a lustrare i loro mezzi.
I vari comandanti, ci avevano messo un po’ a capire cos’era, avevano tutti quella sensazione di abbandono paterno, avevano quel disagio di quando si perde un amico caro, non era una sensazione piacevole, pareva quasi fosse morto qualcuno al quale si è voluto bene.
Poi se ne resero conto.
La Mirage non c’era più.
Gli ormeggi erano stati strappati, il posto tenuto con tanta cura ora lasciava una gelida eco, tra tutti gli spazi vuoti, in quel punto sembrava quasi di perdersi e il cuore saltava un battito.
Mancava la nave ammiraglia, colei che aveva per molti creato un punto di riferimento, mancava tutto ciò che rappresentava ma soprattutto, mancava lui. Il suo comandante.
Davanti a quel pezzo di mondo vuoto, pieno, per molti di tanti ricordi, si era radunata una piccola folla.
Era tutta gente che per un motivo o per l’altro aveva avuto a che fare con lui.
Gente che lo conosceva di persona, gente che non sapeva neppure che faccia avesse ma che provava un’innata simpatia, gente con la quale aveva litigato e poi fatto pace, gente con la quale litigava ancora, gente che lo amava, gente che lo odiava, gente che era stata presa in mezzo, gente che aveva capito e gente che no, gente che non sapeva cosa ci faceva li, gente che menomale che c’era stato, gente e basta.
Erano tutti li e guardavano quel verdissimo prato vuoto che in realtà non lo era.
Al centro, come su di un altare votivo spiccava un riquadro lucido e nero.
Le sue dimensioni potevano sembrare quelle di una valigetta, non tanto grande ma di pelle nera e cucita a mano, una valigetta consunta e vissuta…. era una ventiquattrore.
Tra tutte quelle persone riunite, lo stato d’animo era palese, indecisione, dubbio, interrogativi, nessuno si decideva a compiere nessun gesto.
Era come se il suo proprietario e la sua nave si fossero per sempre trasformati in quell’oggetto.
Poi, qualcuno si fece coraggio, si avvicinò di qualche passo e si inginocchiò di fianco alla valigetta.
La prese tra le mani e ci passò sopra il palmo aperto, come per spolverarla, la soppesò, sembrava piena e pesante.
Intanto la folla si era attorniata e osservava dall’alto quei lenti gesti, di nuovo la valigetta venne posata al suolo e tra le teste di tutti un raggio di sole la colpì facendo brillare il lucido della sua pelle.
Mancava solo un gesto da fare. Aprirla.
Il tizio che le si era inginocchiato a fianco, sollevò lo sguardo interrogativo incrociando quello delle altre persone li attorno, molti annuirono.
Lo scatto secco della serratura, lo schiocco sonoro nell’eco di quello spazio vuoto fece trasalire tutti.
Con esasperante lentezza le mani di quell’uomo sollevarono il coperchio e al suo interno comparvero….
Non so dire se quello che trovarono fu il mezzo che ebbe il suo proprietario per risalire la china ma a quel punto ne furono tutti coinvolti.
Fogli scritti, racconti, romanzi, disegni, battute umoristiche, storielle sagaci, ogni mezzo lecito e illecito per prendere la vita con il giusto peso, per evitare di soccombere alla sua durezza, un valigia intera di sogni, speranze, crudezze e tanto altro. Una farmacia intera per l’anima.
Venne tutto distribuito.
Tutti si riconobbero in qualcosa, tutti ebbero a che fare con quanto conteneva quella valigetta.
Tutti.
A quel punto gli sguardi erano fissi in quello spazio vuoto, sapevano che la Mirage non era stato un miraggio.
Qualcosa, che era provenuto da li, aveva trapassato le loro anime, era in qualche modo servito loro nel bene e nel male, era stato un mezzo per superare quello che in questo momento, il suo creatore non era riuscito a fare per se stesso.
E io, e tutti gli altri che in quel momento esatto eravamo li con quei fogli tra le mani ci siamo trovati a voler ripagare qualcosa…a te, Gigi, Decimo Massimo Meridio, Fenomeno, Nono Minimo, Elvis e tutti quelli che speriamo sarai.
Non abbandonare mai quello che in realtà sei, è l’unica cosa che ti salva da tutto il resto. Credimi.
Con affetto Stefano
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