Inserito il 02/02/2011 alle: 22:33:07
Un altro pezzo di famiglia, un altro pezzo di storia.
Qualcuno ha detto che si muore soltanto quando si smette di essere ricordati e, sorprendentemente, i fratelli e le sorelle di mia nonna sono ancora tutti lì.
Ho già raccontato che passavo le mie estati a Fossombrone, ridente paesino della provincia di Pesaro, la comunità era ancora di stampo rurale tutti, o quasi, avevano un pezzetto di terra che serviva prevalentemente alla sussistenza quotidiana.
C’era anche, tra gli uomini, chi faceva il muratore o altro di non legato ai campi come lavoro ufficiale ma in prevalenza, era la terra a essere la principale fonte di reddito.
Nelle mie vacanze andavo spessissimo a piedi, con mia nonna, in visita da loro che abitavano con le loro famiglie tutti vicini, nella parte ovest del paese, lungo la via Flaminia, nella zona che costeggia il fiume Metauro proveniente dal Furlo.
Si andava a prendere qualcosa tipo frutta e verdura o a scambiarsi favori e notizie o più semplicemente per un tacito aiuto reciproco dettato dalla solidarietà familiare allora molto radicata.
Ricordo ancora i loro nomi e i loro aspetti e gli odori delle loro case di pietra rosa tipica della zona, addossate al monte e incastrate fra la strada e il fiume.
Lazzaro
Marietta
Giuseppa
Giuseppe
Quinta
Sesta
Erano tutti fratelli, Giuseppa era mia nonna.
Zì Lazzar, (Lazzaro) e sua moglie Zì Netta (Anna) per me vecchissimi già allora, avevano un aspetto dolce e gentile, sempre premurosi mi coccolavano molto, sembravano quasi Sandra e Raimondo dell’epoca.
Zì Marietta e Zì Gino suo marito, di lui non mi ricordo molto, non so che lavoro facesse, forse proprio il muratore ma di lei, ho l’immagine di una donna piccolina, rotondetta e rigida a tal punto che quando muoveva il collo doveva girarsi con tutto il corpo.
Poi c’era mia nonna, Peppa, i soprannomi, erano prevalenti sui nomi a tal punto che si doveva indagare per sapere qual’era il vero nome di battesimo.
Io ho creduto a lungo che lei si chiamasse Giuseppina ma non era così.
Mio nonno Gustin (Augusto) si è portato dietro il soprannome di Tirimagna da sempre e ancora adesso che sono tantissimi anni che non c’è più quello è diventato il suo nome.
Ma loro, sono un’altra storia.
Zì Peppin (Giuseppe) e Zì Peppa (lei si che si chiamava Giuseppina) erano sposati e vivevano in una casa che sorgeva in un angolo della montagna ridossata ad un canale che proveniva dal monte, passava sotto la Flaminia e si riversava nel Metauro rifornendo d’acqua una grande vasca di cemento con i bordi inclinati all’interno e ricoperta da una tettoia dove ancora si lavava a mano.
Qualcuno della loro famiglia, forse proprio la zia, d’estate rifaceva i materassi forse proprio per lavoro e nel lavatoio lavava mucchi e mucchi di lana che veniva stesa ad asciugare su tralicci di legno, esposti al sole, proprio davanti a casa in una sottile striscia di marciapiede.
Pettinata a lungo e resa nuovamente morbida imbottiva ancora.
Non so se si rifacevano anche i materassi della famiglia, ma le sorelle e le cognate contribuivano tutte nel lavoro.
Lungo il sentiero che portava al fiume, lo zio teneva le api, tantissime casette di api tutte diverse le une dalle altre, la mia curiosità prevaleva sulla sicurezza, era un fascino al quale era difficile resistere.
Non mi veniva permesso di assistere alle operazioni di prelievo ma solamente a quelle di smielatura, ovvero quando si mettevano le celle di cera in un grandissimo bidone di legno con il coperchio e una manovella.
A quel punto, lui iniziava a girare e girare e dal foro del bidone usciva una sostanza color dell’oro fuso, profumatissima, della quale le api cercavano di riappropriarsi; il miele.
Io guardavo e imparavo, con il mio pezzetto di cera da succhiare tra le mani appiccicose, quel dolcissimo sapore non lo dimenticherò mai.
Zì Quinta con Zì Mari ( Mario) avevano messo su famiglia alle porte del paese verso est nella frazione di San Martino, ma loro avevano proprio i campi, quelli grandi da coltivare e le bestie, quelle grandi da accudire.
Per quanto il miele poteva affascinarmi, pensate a quanto poteva farlo una campagna intera!
La zia era una donnina secca e magrolina, sembrava dovesse spezzarsi da un momento all’altro facendo il rumore di un legnetto.
Lo zio, al contrario era un omone enorme, con un pancione rotondo e prominente, un vocione allegro e sonoro e un viso colorito e rubizzo tipico di tanti contadini cotti dal sole.
Quando con mia nonna andavamo da loro, stavamo tutto il giorno ed era una vera festa, c’erano tante cose da vedere e imparare e anche tante cose da fare.
Io ero da tenere d’occhio perché, lì, i pericoli erano veramente tanti, a cominciare dalla stalla dove tenevano una cavalla, Stella, che per me, era una cosa da guardare nei minimi particolari.
Tenete presente che vivevo in città e maiali, cavalli e galline erano solamente pezzi di carne morta dai macellai.
Nel caldo pomeriggio estivo, mentre tutti riposavano, il rumore delle cicale mi accompagnava nella stalla sotto alla casa, entravo di nascosto e stavo lì a guardare il cavallo che si accorgeva della mia presenza sconosciuta e sbuffava e fremeva nel suo manto marrone lucido.
La paura era quella che potesse scalciare, la tenevano con il muso legato verso il muro interno e io potevo vedere solamente il suo gran sederone e la sua lunga coda che si muoveva di continuo scacciando le mosche.
Quanto avrei voluto, lì di nascosto poterle accarezzare il muso, offrirle qualche ciuffo di erbetta fresca, farmela amica, ma non osavo avvicinarmi più di tanto.
Qualche volta ho potuto cavalcarla nell’aia, quando la liberavano per farla camminare un po’ e non vi dico che emozione, me lo ricordo ancora.
Le galline, al contrario non mi intimidivano affatto, anzi, nell’entusiasmo di aiutare, spesso mi intrufolavo nel pollaio a prendere le uova e, le prendevo, eccome se le prendevo, soprattutto quelle delle covate, lì ce n’erano tante!
Ma io… che ne sapevo?
Nella porcilaia c’è sempre stato un gran maiale che io credevo essere sempre lo stesso, solo da grande ho scoperto che cambiava tutti gli anni.
Mi faceva una gran paura ma morivo di curiosità, mi arrampicavo sul muretto del porcile quando lo zio gli portava un secchio di robaccia liquida e farinosa che la bestia mangiava voracemente, lo guardavo per un po’ fintanto che la sua puzza non aveva il sopravvento quindi scendevo e correvo a fare altro.
Un’altra cosa che mi faceva veramente paura era il gabinetto, rigorosamente all’aperto.
Non c’era un gabinetto normale, c’era una specie di cabina di assi sconnesse in equilibrio precario appoggiata sopra il letamaio, al suo interno, sopra ad un buco che faceva vedere di sotto, facevano conferenze sciami di mosche e mosconi di ogni colore, la puzza era insostenibile, d'altronde la mia abitudine era quella di respirare smog!
Quando andavamo a trovare gli zii, speravo segretamente che non mi scappasse mai qualcosa che non si potesse fare all’aperto.
Quelle lunghe giornate estive passavano lentamente, assaporando ogni particolare, io guardavo i grandi che comunque si dedicavano al lavoro.
Finiti i loro compiti, quando l’aria si faceva finalmente più fresca, nel tardo pomeriggio mia nonna e sua sorella si sedevano vicine sulla panca sotto al fico, il “Fico di Zì Quinta”, un albero maestoso forte e bellissimo.
Cosa facevano?
Chiacchieravano, ma soprattutto trasformavano con l’uncinetto migliaia di chilometri di filo di cotone bianco in praterie di fiori complicati, in costellazioni e firmamenti di stelle che si posavano delicatamente sopra a letti, tavoli e finestre.
Le mani ruvide dei duri lavori di campagna si trasformavano in strumenti raffinatissimi capaci di creare le più fantastiche meraviglie.
La tranquilla sera si annunciava con il comparire di centinaia di lucciole che illuminavano quel quadretto di serenità e il profumo del grano appena tagliato, dei fiori notturni che sbocciavano accompagnava il nostro ritorno a casa.
Zì Sesta era l’ultima sorella che aveva sposato un bolognese, Zio Raffaele, che era passato per il paese, non ho mai saputo per che motivo fosse là.
Loro si trasferirono a Bologna e furono la casa di mia mamma che da ragazza ci andò in cerca di lavoro e vi rimase sposando mio padre.
Mio padre e mia madre, un emiliano e una marchigiana, io non so parlare i loro dialetti ma li capisco molto bene, dalle inflessioni dei loro toni quando parlano le loro lingue natali, riesco a capirne gli stati d’animo e vorrei averli potuti imparare meglio per poterli parlare anch’io così bene.
Mi piace credere che le nostre radici siano dove abbiamo i ricordi e queste non sono necessariamente tutte sotto all’albero ma si allungano lontano e si incrociano con altre, di altri alberi.
Fintanto che ci saranno i ricordi, ci saranno radici, radici vive che manterranno verde l’albero.