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Messico e Panama Lasciata San Diego percorriamo l'autostrada verso la frontiera con il Messico e i cartelli stradali invitano a una guida prudente perché, specialmente di notte, viene attraversata da immigrati clandestini. La prima città che incontriamo è Tijuana e colpisce subito la differenza dal punto di vista economico che separa gli Stati Uniti dal Messico. Appena poche centinaia di metri oltre il confine e siamo già nell'anticamera del terzo mondo: dappertutto rifiuti, disordine, una certa atmosfera sordida propria delle città di frontiera. Tijana è un agglomerato di grattacieli, baracche, centri commerciali, night club, bordelli ed è senz'altro uno dei posti più brutti e nello stesso tempo più visitati del Messico, sopratutto dai californiani che vengono anche per poche ore a fare spese nei grandi shopping center allettati dai bassi prezzi. Il nostro programma è quello di scendere la Bassa California fino a Cabo San Lucas: 1700 chilometri attraverso un territorio pochissimo abitato e attraversato da un unica strada asfaltata.
I primi spagnoli vi giunsero nel 1535 e non trovando tesori né indios da convertire ben presto l'abbandonarono, per loro questa regione era solo una calida fornax - una fornace rovente -, da cui deriva il nome California. Ci fermiamo a Guerrero Negro, un piccolo paese di pescatori che ha raggiunto un certo benessere grazie al turismo ecologico. Nelle calme lagune interne nei mesi invernali oltre 10.000 balene grigie vengono a partorire i loro piccoli e a riprodursi.
Alle prime luci dell'alba prendiamo una barca e ci fermiamo nel mezzo della laguna a 3 - 4 miglia da terra ed attendiamo immobili. Proseguiamo verso sud e ci imbattiamo nei resti delle missioni in rovina, delle oltre 30 che ne furono costruite dai Gesuiti oggi ne restano solo sei, di queste la più bella è senz'altro San Ignatio, immersa in un folto palmeto e di cui è parroco un comboniano italiano. La costa diventa sempre più bella, spiagge di sabbia bianca si succedono le une alle altre. Pensavamo di fermarci a Bahia Conception per una sola notte ma dopo una settimana siamo ancora lì, accampati a un paio di passi dall'acqua blu cobalto del Mar de Cortes. Nelle piccole insenature ogni inverno si danno appuntamento centinaia di camper americani e canadesi, per lo più scassatissimi Winnebago primi anni 70 e Westfalia coperti di ruggine; è curioso vedere che gli Hippies esistono ancora, solo che ora hanno i capelli bianchi e si fanno chiamare "alternativi", ma lo spirito e gli atteggiamenti sono quelli di un tempo. Dopo Loreto la strada si inerpica sui ripidi tornanti della Sierra Giganta. Il paesaggio è grandioso e selvaggio; un coyote ci traversa la strada, un altro trotterella lungo la carreggiata come un cane domestico. Man mano che ci avviciniamo a Cabo San Lucas il traffico aumenta, i paesi si infittiscono, la costa si frantuma un una fila di isolotti e scogli fino a Los Arcos, dove le acque del Pacifico incontrano quelle calme e temperate del Mar de Cortes. Fra San Josè e Cabo San Lucas è un succedersi di alberghi di lusso, condomini, campi da golf, una grande concentrazione turistica paragonabile a quella della Florida. Risaliamo 200 chilometri a nord fino a La Paz per prendere il traghetto che ci porterà a Los Mochis, nel Messico continentale. La Paz è una città moderna con un traffico caotico, puzza di scappamenti e fast-food all'americana; il fascino della Bassa California è ormai finito. Los Mochis è il punto di partenza della ferrovia per Chihuahua, una delle più ardite del mondo. Ci fermiamo a Creel, un paesetto disteso su un ampio altopiano a 2500 metri di altitudine. Nei dintorni vivono gli indiani Tarahumara che hanno fama di essere dei camminatori infaticabili e capita di vederli in paese nei loro costumi tradizionali. Ritornati al campeggio di Los Mochis i camperisti americani ci fanno mille raccomandazioni per quello che sembra essere un viaggio pieno di rischi attraverso il Messico. Prendiamo buona nota di tutti i suggerimenti, anche se tanta paura ci sembra rasentare la paranoia. Gli americani che viaggiano da soli in realtà sono pochissimi, per lo più i gringos si riuniscono in carovane di 20 - 30 equipaggi guidati da un wagonmaster, come quelli delle carovane dei pionieri, al loro seguito hanno un bus per le escursioni, propri vigilantes per i pernottamenti, tutto è perfettamente organizzato senza lasciare spazio all'imprevisto. I costi di questi che loro chiamano adventur tour ci sembrano astronomici: 4 - 5 mila dollari a equipaggio per un mese di viaggio. Dopo Tepic inizia l'autostrada, quattro corsie, liscia come un biliardo, distributori e aree di sosta modernissime, ma dove non sembra transitare nessuno, incrociamo un veicolo ogni quarto d'ora, mentre sulla strada normale che corre quasi parallela c'è un traffico pazzesco. Appena arriviamo al primo casello ne comprendiamo il motivo: i pedaggi sono più che doppi di quelli italiani, il che, considerato che il Messico è un paese povero, è una vera assurdità e non ci meraviglia che nessuno utilizzi le autopistas. Proseguiamo verso Guadalajara su strada normale, traversiamo paesi calcinati dal sole tutti simili gli uni agli altri: l'immancabile chiesa tinta di bianco, lo zocalo con al centro il podio per la musica, i portici dintorno con modeste botteghe. La guida diventa faticosa, un continuo frenare ed accellerare, ogni centro abitato si annuncia con gli immancabili topes, micidiali sbarramenti trasversali di cemento, alti fino a venti centimetri, che hanno la funzione di obbligare i veicoli in transito a rallentare, ma che se vengono presi in velocità ti possono sbarbare via gli assali. Traversando lo stato del Michoacan saliamo fino a 3800 metri per assistere a uno spettacolo naturale di eccezionale bellezza: oltre 130 milioni di farfalle monarca, dal vivo color arancio, arrivano qui ogni anno a ottobre dal Canada per riprodursi e quindi morire. Durante l'inverno nasceranno le nuove farfalle che in primavera prenderanno il volo di ritorno di oltre 6000 chilometri. E' difficile immaginare come possa una creatura così fragile percorrere questa immensa distanza. Le farfalle riposano a grappoli di migliaia sui rami degli abeti, ma appena l'aria si riscalda prendono il volo formando vere nuvole colorate che sorvolano la montagna. Lasciamo il santuario delle monarca per Taxco, arroccata contro la montagna che le ha dato grande ricchezza nel periodo coloniale con le sue miniere di argento. Poco oltre il bel campeggio di Cuernavaca invita a una sosta prolungata. La città gode di un ottimo clima ed è ad appena 80 chilometri dalla invivibile Città del Messico, per questo è diventata la residenza privilegiata di gente danarosa, politici e gente dello spettacolo. Da noi in Italia Cuernavaca è diventata nota come rifugio di tangentisti in fuga. Le case del centro sono dipinte di azzurro, giallo, rosa, belle dimore coloniali con cortili interni pieni di fiori. Nei quartieri residenziali alti muri proteggono ville da favola fra cascate di bougonvilles cremisi. La prossima tappa è Oaxaca che dicono sia la città più tipicamente coloniale del paese, in effetti è un posto tranquillo, fresco e pulito. Sullo zocalo la sera c'è musica con mezza città ad ascoltare in un'atmosfera di serenità provinciale. Ci tratteniamo un paio di giorni perché dopo migliaia di chilometri di guida ogni tanto si sente il bisogno di uno stacco in un ambiente rilassante. La Panamericana, in una serie interminabile di curve, scende dai 2500 metri dell'altopiano al livello del mare. Dall'aria fresca delle montagne si va al clima torrido dei tropici. Ci alziamo presto la mattina per sfruttare le ore più fresche della giornata, ma appena il sole si alza è una mazzata di caldo insopportabile. Siamo nello stretto di Tehuantepec, il punto di minor distanza fra i due oceani. Qui tira sempre un vento fortissimo e gli scarsi alberi sono piegati quasi fino a terra; la prima cittadina che incontriamo non per nulla si chiama "La Ventosa".
Il confine con il Guatemala è vicino. Presto dovremo imparare che i passaggi delle frontiere nei paesi del Centro America richiedono tempo e, sopratutto, nervi calmi. Appena entriamo nel piazzale un gruppo di gente ci viene incontro vociando e gesticolando -"mister, mister"-. Sono i tramites, galoppini che si offrono di sbrigare tutte le complicate formalità. Facciamo loro capire che siamo in grado di cavarcela da soli "non es posible, senor!" ci rispondono. In meno di cento chilometri risaliamo ai 3000 metri delle montagne. Tappa sulle rive del lago di Atitlan, dominato dai coni perfetti di tre vulcani e qui incontriamo un equipaggio tedesco che avevamo incontrato l'anno scorso in California e che sta compiendo il nostro stesso viaggio. Il Guatemala è il paese più affascinante del Centro America dove la cultura india è ancora viva. Indigeni nei loro costumi coloratissimi affollano mercati pieni di vita. Il paese è da poco uscito da una sanguinosa guerra civile e ancora si fanno sentire le conseguenze della brutale dittatura militare. Altra sosta prolungata ad Antigua, la vecchia capitale più volte distrutta dai terremoti, oggi è una simpatica cittadina coloniale con case a un piano e stradine con il selciato in pietra. Ormai non ci sono più campeggi e la sera per tempo dobbiamo preoccuparci di trovare un posto dove pernottare. Ci fermiamo nei parcheggi degli alberghi, altre volte nelle stazioni di servizio aperte 24 ore che sono sicure ma rumorose per il continuo va e vieni di camion durante la notte. Scopriamo anche i parcheggi dei pompieri e della Croce Rossa. La casa rodante, come la chiamano qui, suscita curiosità e abbiamo sempre gente dintorno che ci chiede di vedere l'interno. Anche alla frontiera con l'Honduras le formalità sono senza fine ma ormai abbiamo imparato che è inutile agitarsi. Cerchiamo di arrivare di primo mattino in modo da uscirne verso mezzogiorno ed avere ancora una mezza giornata a disposizione per la raggiungere la prossima destinazione. Le rovine Maya di Copan sono una delle poche attrazioni turistiche del paese ed sono veramente di grande interesse. Dopo una settimana entriamo in Nicaragua. Ci viene fatto presente che esistono seri problemi di sicurezza sulle strade dove asaltos e furti sono frequenti. Il paese è uscito da un decennio di guerra, le varie milizie sono state smobilitate, però l'inserimento di questa gente nella vita civile è difficile. Un tizio, in fila con noi per il visto, ci dice quasi a giustificare la situazione -"Es gente acostumbrada a matar"-, è gente abituata ad ammazzare. Bell'affare! La strada diventa sempre più stretta e piena di buche, il traffico è costituito da decrepiti camion russi e della DDR, segno della vecchia appartenenza del paese al blocco comunista. Modeste casupole di fango, contadini al lavoro nei campi aridi, un quadro generale di grande povertà. Managua, la capitale, è una specie di città fantasma; distrutta dal terremoto nel 1972 non è stata ricostruita sulle rive del lago che si trova esattamente sulla faglia sismica, ma è oggi composta da vari quartieri sparsi e fra questi campi coltivati e distese di baracche miserevoli. Su tutto sovrasta la struttura diroccata della vecchia cattedrale. La gente è cordiale e non abituata alla presenza di turisti; raramente nei mercati ci fanno pagare un prezzo più alto rispetto a quello praticato ai locali, cosa comunissima negli altri paesi, dove fregare i gringos è considerato quasi un obbligo. Un edificio dignitoso, computer sui tavoli, poliziotti in uniformi immacolate, sembra di essere in un altro mondo: stiamo infatti entrando in Costa Rica che con un tantino di esagerazione viene definita la "Svizzera del l'America Latina". Le pratiche sono veloci, per la prima volta dopo il Messico è possibile fare un'assicurazione di responsabilità civile per il camper. Quasi un terzo del territorio è occupato da parchi nazionali, le coste sono splendide. Ci tratteniamo oltre un mese ma il nostro pensiero è ormai rivolto a Panama e all'imbarco del mezzo. I trasbordi via mare in questo genere di viaggi costituiscono sempre motivo di stress e creano una serie di problemi organizzativi. Fino ad oggi non esiste ancora una strada attraverso la foresta del Darien e la Panamericana si interrompe duecento chilometri oltre il canale, è quindi necessario prendere una nave per raggiungere la Columbia. A Panama City andiamo da una agenzia marittima all'altra per cercare un imbarco: di navi ce ne sono in abbondanza, però i prezzi che ci vengono richiesti sono esosi: intorno ai 2000 dollari per meno di un giorno di navigazione. Purtroppo non c'è niente da fare, Panama è come un vicolo cieco e se ne esce solo via mare, quindi se vogliamo continuare il viaggio bisogna sottostare a queste condizioni. Non per niente Morgan il pirata e altri celebri filibustieri hanno incrociato a lungo da queste parti! Decidiamo per una nave della Nordana Line, una compagnia danese. Le regole per l'imbarco sono tassative: il camper va consegnato vuoto ed aperto. Il signor Harris con un risolino ci avverte "tutto ciò che non è inchiodato o imbullonato viene regolarmente rubato". Assicurazione? Neppure a parlarne.
Con queste premesse non resta altro che acquistare dei grandi fogli di plastica, imballare il contenuto del camper e portarci tutto con noi in aereo. Dalle coperte alle stoviglie, dall'abbigliamento agli articoli da toeletta, addirittura le fodere dei sedili e de materassi, perché è successo che si sono rubati anche quelli, tutto è perfettamente imballato.
"La maggior parte di noi porta dentro di sé per tutta la vita un sogno, per noi questo sogno è stato quello di poter fare, un giorno, un viaggio in camper intorno al mondo. Un viaggio che si è alimentato per decenni di letture, proiezioni, incontri con persone che, con i loro racconti, ci rendevano partecipi delle loro esperienze in paesi lontani.
Viaggio effettuato nel 1998 da Cesare Pastore, www.campervagamondo.it. Potete trovare ulteriori informazioni sulle località toccate da questo itinerario nella sezione METE. |
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